Carlo Fruttero - Massimo Gramellini, La Stampa 14/11/2010, 14 novembre 2010
1992-1994
La rivoluzione
Come ogni rivoluzione che si rispetti, anche quella italiana si sviluppa in quattro stadi: la presa della Bastiglia, il Terrore, il Termidoro (dove le passioni si stemperano) e il Consolato, cioè l’avvento del Napoleone di turno, il cui cognome comincia ancora una volta per B. Ma riavvolgiamo il nastro dall’inizio, da un magistrato quarantenne della procura di Milano, Antonio Di Pietro, che un pomeriggio di fine febbraio (del 1992) telefona all’avvocato di un certo Mario Chiesa, presidente socialista della casa di riposo Pio Albergo Trivulzio, arrestato pochi giorni prima mentre intascava una mazzetta. «Dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita». Si riferisce ai conti Fiuggi e Levissima che ha appena scoperto in Svizzera con l’aiuto della ex moglie dell’indagato, in lite col marito per gli alimenti.
Chiesa è stato colto in flagrante grazie alla collaborazione di un imprenditore stufo di farsi dissanguare. Prima di consegnarsi, ha gettato nel gabinetto un’ultima busta di soldi. In carcere ha provato dapprima a resistere, confidando nel sostegno del suo partito. Ma adesso che Di Pietro ha trovato i depositi delle tangenti, il funzionario socialista crolla e si decide a parlare. Spiega il sistema, fa i nomi, coinvolge Dc e Pci-Pds. E il solito scandaletto all’italiana diventa Mani Pulite, il disvelamento della Tangentopoli in cui si inabissa la Prima Repubblica.
Bettino Craxi sarà tra i primi a sentire la burrasca, ma ancora la sottovaluta e definisce Chiesa «un mariuolo». Gli serve a poco: nonostante all’inizio rimanga nei confini lombardi, l’inchiesta scatena l’opinione pubblica, esasperata da un sistema bloccato da mezzo secolo. Politicamente assediato (a Milano sono indagati sindaco ed ex sindaco, Pillitteri e Tognoli, entrambi socialisti) il 3 luglio 1992 Craxi pronuncia alla Camera uno dei suoi discorsi più famosi: «I partiti hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Non credo ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». In effetti non si alza nessuno. Tutti zitti. Anche lui, peraltro, riguardo ai tanti soldi defluiti nei conti esteri, che forse non sono serviti solo a finanziare il partito.
Il Terrore
La sera del 30 aprile 1993 Bettino Craxi esce dalla sua residenza romana, l’hotel Raphael, per andare negli studi di Canale 5, ospite in una trasmissione di Giuliano Ferrara. All’ingresso lo attendono decine di manifestanti che ritmano «ladro-ladro». Craxi insiste, vuole l’auto davanti al portone principale. Lì viene accolto da insulti e da un fitto lancio di monetine. Protetto dalla polizia riesce ad allontanarsi, ma capisce che la sua avventura politica è finita e poco dopo, in tv, parlerà di se stesso al passato.
Qualche metro più in là, in piazza Navona, si sta tenendo un comizio con il leader del Pds Occhetto e Francesco Rutelli, ex radicale convertito all’ecologia, che sarà candidato sindaco di Roma per la coalizione di sinistra. Rutelli si è appena dimesso da ministro del governo Ciampi e dal palco incita la gente alla protesta dura, augurandosi che Craxi finisca col consumare il rancio «nelle patrie galere». Il giorno prima la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere per l’ormai ex segretario socialista. I quotidiani scrivono che è il momento più nero della Repubblica dall’assassinio di Aldo Moro. Roma è travolta dalle manifestazioni, davanti ai palazzi del potere e alla sede del Psi. Sono i tempi in cui i deputati della Lega sventolano il cappio e quelli del Movimento Sociale mostrano le manette.
È l’aspetto truce della rivoluzione. Craxi morirà latitante in Tunisia, sette anni dopo, malato e solo, ma la contabilità più cupa è quella dei suicidi. Una quarantina. Poi ci sono anche coloro che si ammalano e muoiono di tumore o di infarto, come Vincenzo Balzamo, responsabile amministrativo del Psi. Il primo a spararsi è Renato Amorese, segretario socialista di Lodi, una sera di giugno del 1992. A settembre è la volta di Sergio Moroni (padre di Chiara, futura deputata del centrodestra) che manda una lettera al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, lamentando che la ferocia e soprattutto il caso assegnino il patibolo o l’impunità. Dopodiché si spara in bocca con un fucile.
Il 20 luglio muore in carcere l’ex presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari: si soffoca con un sacchetto di cellophane in testa. È reduce da quattro mesi e mezzo di galera preventiva e dall’ennesimo rifiuto di scarcerazione. Prima di morire scrive alla moglie: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore». È per evitare l’onta del carcere che tre giorni dopo si spara un colpo alla tempia Raul Gardini, patron del gruppo Ferruzzi ed elargitore della maxi-tangente Enimont. Ancora l’anno prima era sulle copertine delle riviste patinate, al timone della sua barca, il Moro di Venezia, che aveva sfiorato la vittoria all’America’s Cup.