Maurizio Molinari, La Stampa 14/11/2010, 14 novembre 2010
La liberazione di Aung San Suu Kyi premia gli sforzi dell’Amministrazione Obama che ha puntato su una miscela di pressioni pubbliche, contatti informali e triangolazioni diplomatiche per piegare le resistenze della giunta militare birmana
La liberazione di Aung San Suu Kyi premia gli sforzi dell’Amministrazione Obama che ha puntato su una miscela di pressioni pubbliche, contatti informali e triangolazioni diplomatiche per piegare le resistenze della giunta militare birmana. E ora Washington continua a incalzare i generali: «Non è finita, deve liberare tutti gli altri detenuti politici». Le pressioni sono quelle che Washington ha messo in atto sin dall’insediamento di Obama, con un evidente crescendo negli ultimi dieci giorni: a fine ottobre il Segretario di Stato Hillary Clinton ha sfruttato il viaggio in Asia per far sapere alla giunta che avrebbe spinto l’Onu a lanciare un’inchiesta sugli «abusi dei diritti umani», mentre mercoledì è stato Obama, durante la tappa a Mumbai, a condannare le elezioni birmane definendole «illegali» e affiancando il rinnovo della richiesta della liberazione di Suu Kyi all’esplicita minaccia di considerare illegittimo il nuovo Parlamento. Lette assieme, le parole di Hillary e Obama hanno paventato per la giunta il rischio di diventare una nazione-paria della comunità internazionale, obbligata a confrontarsi con inchieste dell’Onu e possibili, conseguenti, sanzioni. Tali minacce non hanno però impedito all’Amministrazione americana di cercare, sin dal marzo del 2009, contatti diretti con la giunta: l’inviato Stephen Blake si recò a Naypyidaw per incontrare il ministro degli Esteri Nyan Win e aprire un canale di «discussione cordiale su questioni di mutuo interesse». Simili contatti si sono poi ripetuti, sempre lontano dai riflettori, nella convinzione di Washington che mantenere tale timida apertura potesse servire a scongiurare una chiusura a riccio del regime, spingendolo ad assumere posizioni sempre più estreme. La tattica del «bastone e carota», mutuata dallo stile del presidente Roosevelt cui spesso Obama si richiama, è servita per mettere la giunta militare alle strette offrendole però sempre una via d’uscita. Ma ciò che alla fine ha più pagato sono state le triangolazioni diplomatiche con cui la Casa Bianca ha completato l’assedio. La più importante è stata con l’India del premier Manmohan Singh, dove il generale birmano Than Shwe si era recato in visita per cinque giorni in luglio, a conferma dei solidi rapporti economici. Pur evitando di unirsi alle condanne pubbliche di Obama, Singh in privato - secondo fonti diplomatiche - avrebbe recapitato a Shwe messaggi espliciti sul crescente imbarazzo indiano per le ripetute violazioni dei diritti umani. Obama ha poi più volte affrontato il nodo birmano nei colloqui con il collega cinese Hu Jintao - l’ultima volta a margine del G20 a Seul - che resta il maggiore alleato strategico della giunta. La Casa Bianca ha proposto a Hu di cooperare sulla Birmania, come già avviene sulla Corea del Nord, e questo è stato sufficiente per suscitare nella giunta ulteriori timori . Nel complesso la strategia di pressioni convergenti su Myanmar alza il velo sul metodo che la Casa Bianca preferisce adottare quando si tratta di gestire situazioni di crisi con Paesi difficili, dall’Iran alla Nord Corea. Si spiega così il testo del comunicato con cui Obama ha reagito alla liberazione, perché da un lato plaude al «rilascio da lungo tempo dovuto dell’eroina della democrazia» e dall’altro rinnova la richiesta ai generali di «liberare tutti i prigionieri politici, e non solo uno di loro». Anche i leader democratici del Congresso, da Nancy Pelosi a John Kerry, hanno confermato tale approccio, puntando a evitare che la liberazione di Aung San Suu Kyi consenta al regime di uscire dall’angolo. «Aspettiamo il giorno in cui tutti i cittadini birmani non saranno più vittime della paura e della persecuzione» termina il comunicato della Casa Bianca, ammonendo che fino ad allora «rimarremo determinati difensori della libertà e dei diritti del popolo birmano».