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 2010  novembre 13 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 42 - BATTAGLIE ALL’AGRARIA

Non è assurdo che quelli come Cavour permettessero a nobili e borghesi di mischiarsi in un Club del Whist e resistessero al criterio dell’uguaglianza nell’Agraria?
Si trattava di far fronte a Valerio e ai suoi amici, cioè ai liberali exageré. Gli esagerati potevano aprir brecce. Dalle brecce poteva entrare qualunque cosa. Era cioè la solita posizione a muro contro i pericoli della Rivoluzione. Valerio andava in provincia «fra i popolani agricoli ad ingaggiar proseliti, i quali venivano, in qualità di soci, ad arruolarsi nell’Associazione agraria e dei quali ei sapea farsi forte negli armeggiamenti che nei convegni di quella società furono le prime prove del suo tribunato». Cioè Valerio s’appoggiava sulle sedi distaccate (i «comizi provinciali») per acquistar potere a Torino. Pretendeva che parte dei soldi delle quote associative andassero in periferia, che nella direzione dell’Associazione vi fossero rappresentanti delle province. Parlava come un tribuno, lo soprannominarono Caio Gracco. Cavour rispondeva che i lavori si sarebbero organizzati meglio con una struttura accentrata. Montezemolo lo accusò allora di «farsi paladino del principio d’immobilità», di essere «un esponente dello spirito di conservazione».
Cavour se la prendeva?
Cavour faceva spallucce.
E sui poderi modello?
Al suo articolo del 31 agosto risposero Carlo Veggi, Felice Duboin («la maggior parte delle nostre terre sono lungi dal dare il prodotto di cui sono suscettibili»), Napoléon Donnet (Cavour pensa che «nulla richieggia cangiamento e miglioramento»). Il conte controreplicò attaccando l’idea di far pagare il podere-modello allo Stato, «la sperimentazione migliore esser dei privati obbligati a tener conto di quelle considerazioni di economicità che invece sfuggono a costosi e inefficienti istituti pubblici». Trattandosi di campi, scrisse anche che non nelle scuole poteva acquistarsi «quella perizia nella pratica delle faccende rurali, che è la prima condizione di successo di un’impresa agricola».
Battaglia vinta o persa?
Battaglia persa. Il podere-modello lo fecero poi alla Venaria. Però anche battaglia vinta: la scuola della Venaria non funzionava, nel ’48 il terreno fu venduto al marchese di Sambuy, e nel ’53, quando era primo ministro, Cavour la fece chiudere definitivamente. La polemica sui poderi-modello provocò il primo intervento esterno, piuttosto pesante.
Che ne sapevano, fuori, delle loro beghe?
Il re teneva un suo ispettore, il marchese Carlo della Marmora, dentro l’Associazione, perché vigilasse su discussioni e scritti. Quando il Ragazzoni, nel suo «Repertorio d’agricoltura», difese il conte con troppa foga e mise alla berlina i suoi avversari, La Marmora chiese «le opportune disposizioni onde la critica rimanga per lo meno nei limiti della moderazione». Si era pensato a una convocazione del temutissimo colonnello Lazzari, ispettore generale di polizia. Ci si contentò poi di mandare il Ragazzoni davanti all’intendente generale di Torino «per redarguirlo dello sconcio modo con cui si è permesso criticare, o deridere nel suo giornale gli atti ed i membri». Dovette scrivere un articolo di scuse. L’antipatia per Cavour crebbe. Il conte s’era guadagnato ormai, per la tenacia con cui si opponeva ai liberali democratici, la fama di conservatore accanito, di «austro-gesuitico-oscurantista», di «ultrarétardataire». Giudizi che lo turbavano poco, poiché restava «convinto essere dovere dei buoni, dei veri amatori del progresso civile e della libertà moderna, di combattere a sinistra, come a destra, e di non lasciare agli esagerati, a quei che più odiano i nobili il libero imperio sull’opinione pubblica».
Il giusto-mezzo.
Già. La rottura definitiva avvenne sulla nomina del nuovo presidente. Cesare Alfieri era stato messo a capo del Magistrato della Riforma, cioè ministro della Pubblica Istruzione. Un altro schiaffo ai gesuiti.
Perché non nominare presidente Cavour?
Per un attimo i valeriani ci avevano pensato, poi lasciarono perdere. Il vice-presidente, subentrato nella carica, era Salmour. Ci fu un primo scontro sulla questione se Salmour dovesse restare in carica per i dieci mesi che mancavano a completare il mandato di Alfieri (tesi Valerio) o per i tre anni di un incarico completo (tesi Cavour). Vinse la tesi di Valerio, alla fine di una discussione parecchio accesa e segnalata per ora senza conseguenze da La Marmora. Dieci mesi dopo, però, il gruppo di Valerio presentò un suo candidato alla presidenza, il marchese di Sambuy. Il conte s’era abbastanza disinteressato della cosa, ma quando seppe che Salmour ci teneva ad essere riconfermato per altri tre anni, si buttò a capofitto nella lotta e la vinse: il conte di Salmour venne eletto al secondo turno, e sia pure per un solo voto. Ma i valeriani, vedendo Cavour e i suoi amici uscire trionfanti dalla sala di via dei Conciatori, prepararono la rivincita.