ANDREW WILSON, Tuttolibri - La Stampa 13/11/2010, pagina I, 13 novembre 2010
La signora in nero messa a nudo - La Highsmith potrebbe «essere definita un’autrice di ballate sullo stalking» scrisse Susannah Clapp sul New Yorker
La signora in nero messa a nudo - La Highsmith potrebbe «essere definita un’autrice di ballate sullo stalking» scrisse Susannah Clapp sul New Yorker. «L’ossessione di una persona per un’altra, in un mix di attrazione e antagonismo, occupa un ruolo di rilievo quasi in ogni sua storia». In particolare, la scrittrice usava le donne della sua vita – ebbe una sbalorditiva sequela di amanti – come muse, attingendo ai suoi ambigui sentimenti nei loro confronti e rielaborandoli nella sua scrittura. Come molti romantici, a volte la Highsmith era di facili costumi, ma il suo saltare da un letto all’altro stava a indicare, più che a confutare, la sua ricerca incessante dell’ideale. Per parafrasare il romanzo di Djuna Barnes La foresta della notte, che le era stato regalato da una delle donne che lei venerava, nel suo cuore giacevano i fossili di ognuna delle donne amate, intagli della loro personalità che ciascuna di loro le aveva lasciato. «Il lavoro di tutta la mia vita sarà un monumento senza dedica a una donna» scrisse nel diario. Lei stessa riconosceva che le sue amanti possedevano la chiave per aiutarla a capire la sua personalità e la sua narrativa. «E chi sono io?» si domandava all’inizio degli Anni Cinquanta. «Un riflesso negli occhi di coloro che mi amano»./ A partire dagli Anni Sessanta, quando recensori e editor per primi cominciarono ad accorgersi che i romanzi della Highsmith erano molto diversi dalla maggior parte della narrativa dozzinale sfornata dagli autori di gialli, anche i critici iniziarono a interrogarsi sulla collocazione della scrittrice nella letteratura contemporanea. Ancora oggi cercare di «inquadrarla» in un contesto o in una tradizione letterari è quasi impossibile, come lei stessa ammetteva. «Non penso mai al mio “posto” nella letteratura, e forse non ne ho uno. Mi considero un’intrattenitrice». Il suo goticismo – l’appetito insaziabile per il grottesco, il crudele e il macabro, particolarmente evidente nei racconti – deve molto a Edgar Allan Poe, con cui condivideva il giorno di nascita, il 19 gennaio, mentre il suo stile fu influenzato anche dai romanzi noir degli anni Trenta e Quaranta. Ma i temi e gli argomenti filosofici al centro della sua narrativa riflettono il cupo esistenzialismo di Dostoevskij, Kierkegaard, Nietzsche, Kafka, Sartre e Camus, autori che ben conosceva. La Highsmith pensava che sia impossibile prevedere il comportamento o il destino umano, e che le letture deterministiche dell’esistenza privino l’uomo proprio di ciò che lo differenzia dalle forme inferiori di esistenza. «Ammettiamo che la vita umana possa essere guidata e ogni possibilità venga eliminata» scrisse in uno dei quaderni, citando Tolstoj. La scrittrice celebrava l’irrazionalità, il caos e l’anarchia emotiva, e considerava i criminali l’esempio perfetto dell’eroe esistenzialista del Ventesimo secolo, uomini che riteneva «attivi, liberi di spirito». L’anno precedente alla stesura del suo primo romanzo pubblicato, Sconosciuti in treno, lesse Lo straniero di Albert Camus, il cui protagonista Meursault incarna l’eroe disturbato tanto caro alla Highsmith. In un’annotazione del 1947, si chiedeva se Meursault rappresentasse «la volontà, forse come il seguace dell’esistenzialismo?», e proseguiva citando Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, un altro racconto della dissociazione di un uomo dalla società. Osservò come il protagonista preferisse porre fine alla propria esistenza anziché sopportare una vita razionale, prestabilita, pianificata e prevedibile. Amava i dipinti di Francis Bacon e, negli ultimi anni di vita, teneva sulla scrivania una cartolina con la riproduzione del suo Study Number 6. «Per me Francis Bacon ritrae l’immagine più autentica di quello che succede nel mondo» disse, «il genere umano che vomita nel gabinetto con il sedere nudo in vista». La narrativa della Highsmith, come la pittura di Bacon, ci aiuta a percepire le terribili forze oscure che plasmano la nostra vita, documentando al contempo la banalità del male. Ciò che è banale e futile viene posto sullo stesso piano di ciò che è sinistro e raccapricciante, ed è questa inquietante giustapposizione che dà tanta forza alla sua opera. Come Terrence Rafferty scrisse sul New Yorker: «I romanzi di Patricia Highsmith sono inquietanti come nessun altro: non grandi incubi catartici, ma banali sogni cattivi che ci rendono inquieti e insonni per il resto della notte». / Lo scrittore Will Self, in una trasmissione di BBC2 sull’eredità della Highsmith, disse: «Patricia Highsmith sta ai libri gialli come Polanski ai film thriller / Penso che la Highsmith sarà ricordata come uno dei grandi cartografi della psicopatologia criminale e, in un certo senso, una precorritrice dell’ossessione collettiva per i serial killer e il male che ha preso piede nel nostro mondo; una pioniera, se volete». / La creatura più famosa della Highsmith è Tom Ripley, l’affascinante psicopatico che compare in cinque dei suoi ventidue romanzi. È un assassino spietato, con un gusto per le cose più raffinate della vita. Dipinge e disegna, suona al clavicembalo Scarlatti e le Variazioni Goldberg di Bach, legge Schiller e Molière e va molto fiero della sua collezione di opere d’arte (quadri di Van Gogh e Magritte, accanto a disegni di Cocteau e Picasso). Il tonfo di un cadavere in una fossa appena scavata gli dà un piacere indicibile, e ride alla vista di due delle sue vittime mentre bruciano in un’auto. Eppure, è lo stesso uomo che si commuove davanti alla tomba di Keats. La Highsmith usò il personaggio di Ripley per scardinare la ripetitività dei gialli tradizionali. Secondo W.H. Auden, la formula standard della narrativa poliziesca poteva essere sintetizzata come segue: «C’è un omicidio; ci sono molti indiziati; vengono eliminati tutti i sospetti meno uno, che è l’assassino; l’assassino viene arrestato o muore». Non così in un romanzo della Highsmith. «Penso che concentrarsi sul “Chi è stato?” sia un modo sciocco di stuzzicare la gente» disse del romanzo poliziesco. «A me questo non interessa per niente. /È come una specie di rompicapo, e i rompicapi non mi affascinano». La scrittrice induce abilmente il lettore a identificarsi con Ripley, e alla fine le nostre reazioni morali sono così ingarbugliate che facciamo a tutti gli effetti il tifo per l’assassino, sperando che sfugga alla punizione – come in effetti avviene, con crescente virtuosismo, in ogni libro. Senza dubbio la Highsmith ammirava quella «razza superiore» di assassini; le vittime, viceversa, spesso le considerava cittadini di seconda categoria. «In alcuni dei miei libri le vittime sono individui cattivi o scialbi, perciò l’assassino è più importante di loro» diceva. «Questo è il parere di una scrittrice, non quello legale di un giudice». Graham Greene, uno dei suoi più grandi fan, la definì «la poetessa dell’inquietudine», una scrittrice che ha creato «un mondo senza esiti morali / Niente è certo una volta superata questa frontiera».