Stefano Vergine, L’espresso 18/11/2010, 18 novembre 2010
LA CULTURA VALE ORO
È come se la Russia lasciasse arrugginire i suoi gasdotti, come se l’Arabia Saudita decidesse di non fare più manutenzione ai propri pozzi petroliferi. Perché il greggio sta a Riyad come il patrimonio artistico sta a Roma. Con una differenza: l’oro arabo continua a fluire verso l’Occidente, quello italiano è sempre più invisibile. Severino Salvemini, 60 anni, insegna Economia dei beni culturali alla Bocconi. Si è posto il compito di ridurre la distanza tra cultura ed economia, dilatatasi nel tempo. In questi giorni è a Firenze per "Florens 2010" (vedi box).
La cultura è davvero il nostro petrolio?
"Roba vecchia, concetto sorpassato. Il tema dei beni culturali può essere letto in due modi: in termini patrimoniali o reddituali, come il bilancio di una società. Leggerlo in termini patrimoniali significa considerare il patrimonio dell’Italia, presidiarlo, manutenerlo, valorizzarlo. La scuola di Salvatore Settis, davanti a cui io mi tolgo il cappello".
Ma la sua lettura è diversa.
"Sì, la mia è quella reddituale. Significa che la cultura, le arti, l’intrattenimento, i festival e tutto questo genere di cose ha delle ricadute economiche di reddito. Significa che producono occupazione, indotto, portano ricchezza perché attirano turisti, i quali migliorano il reddito degli albergatori che a loro volta fanno aumentare quello delle comunità locali. Inoltre, e questo non è un effetto immediato ma non per questo è meno importante, produrre cultura aiuta a cambiare la testa delle persone. E questo è indispensabile se pensiamo a quanto il mondo sta mutando velocemente. Insomma, puntare sulla cultura ha due vantaggi rispetto alla crisi: da una parte, in un momento di smarrimento di senso, diventa un ancoraggio per la società; dall’altra, può ridare fiato ad alcune attività economiche, visto che qualcuno dovrà pur pensare a come saranno i nuovi distretti industriali".
Che fare, dunque?
"Mettere in collegamento la cultura con le imprese. Si può, ad esempio, unire un museo a un’impresa. Invece di portare i dirigenti a fare solo corsi di formazione sul bilancio, li si manda al museo e si spiega loro perché l’artista fa una produzione concettuale piuttosto che una figurativa. È importante, perché quei dirigenti faranno poi un prodotto che verrà consumato da gente che va a vedere quegli artisti".
C’è qualcuno che l’ha fatto?
"Il signor Dainese, che produce indumenti per i motociclisti, porta i dipendenti al Museo di Trento e Rovereto o alla Biennale di Venezia. Credo che lo faccia perché c’è un ritorno sulle associazioni di idee che portano alla creazione del prodotto".
Difficile applicare il ragionamento alle migliaia di piccole e medie imprese meccaniche del Paese. Il suo discorso non è un po’ elitario?
"Sì, parliamo di prodotti di alta gamma. Ma questa è l’Italia che ce la farà ad uscire bene dalla crisi: è il made in Italy del 2030. L’Italia che fa le fodere o i componenti del volante non ci sarà più. Ci distingueremo per il diritto societario sofisticato o l’ideazione di certi manufatti particolari. In questo la cultura può essere utile".
Unire la cultura alle imprese: molti dicono che è un ragionamento pericoloso.
"Pensano che per me reddito vuol dire McDonald’s. Credono che se l’economia cavalca la cultura questa viene snaturata".
Invece?
"Io non dico che i musei devono essere for profit, che devono mantenersi con la vendita di magliette e cappellini. Ma è importante che ci sia un collegamento tra il museo e l’impresa che sta accanto. Vuol dire immaginare Firenze non solo come città rivolta al Rinascimento, ma anche verso il futuro: capire che deve avere un enzima innovativo per i prossimi 20 anni. Un esempio: nessuno dei film che parlano di Firenze vengono girati in città, e questo avviene perché non c’è una film commission che si occupi di organizzare queste cose".
La politica italiana capisce l’importanza di unire cultura e imprese?
"Assolutamente no, tant’è che abbiamo un ministero della Cultura, indipendentemente dalla situazione attuale, sganciato da quello dello Sviluppo economico. Emblematico. Il ministro Bondi dice che "la cultura non si mangia", ma si sbaglia di grosso. La cultura dà lavoro e altri, fuori dall’Italia, l’hanno capito".
Chi?
"Obama nel pacchetto anticrisi ha aumentato del 30 per cento il budget annuale del National Endowment for Arts. Sarkozy, che non è certo un bolscevico, ha accresciuto del 10 per cento il contributo dello Stato francese alla cultura. Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha lanciato un piano di sostegno al settore artistico che dovrebbe generare un indotto di 5,8 milioni di dollari nel solo distretto di Manhattan. In Italia l’anno scorso il ministero ha ridotto del 23 per cento il budget nazionale. Al contempo le spese culturali sono state ridotte anche da Comuni, Province e Regioni".
Perché scelte così diverse?
"Alcuni hanno capito che nell’economia postmoderna conterà sempre meno il valore d’uso dei prodotti e sempre più la loro valenza simbolica, il significato culturale che gli oggetti incorporano. Per produrre oggetti del genere bisogna conoscere".
È vero però che nel mondo della cultura ci sono parecchie attività in perdita.
"E su quelle bisogna intervenire, innanzitutto misurandole. A Bari la ristrutturazione del teatro Petruzzelli è costata 15 milioni di euro. Ma quali ricadute economiche produce sulla città? Nessuno lo ha misurato. Se si facesse, e venisse fuori che rende poco, il sindaco Emiliano dovrebbe rivedere la strategia. La stessa cosa vale per il Festival del cinema di Roma e di Venezia, o per il dibattito sulla Formula1 da correre a Roma o a Monza. Si faccia un calcolo della resa e si decida in base a questo".
C’è qualcosa che rende sia dal punto vista economico che culturale?
"Il Festival della letteratura di Mantova, il Festival della mente di Sarzana, il Settembre Musica MiTo. Oppure luoghi come l’Auditorium Parco della musica di Roma o la Triennale di Milano, tanto per citare alcuni degli esempi più virtuosi".
Quindi le cose non vanno poi così male.
"Molte di queste sono iniziative che nascono dal basso, come il festival letteratura. Ma questi fenomeni hanno bisogno di un coordinamento. La mia è una provocazione un po’ sovietica, ma ci sarebbe bisogno di un piano nazionale per la cultura, che dev’essere pianificata nel medio-lungo termine. Se si vuol far nascere qualcosa di simile alla Fabbrica del Vapore di Milano, bisogna pensare che un assessore ha bisogno almeno di 20 anni. A maggior ragione, se pensiamo alla Cité de la musique di Parigi o al Festival internazionale di Edimburgo ci rendiamo contro della necessità di una pianificazione a lungo termine". n
Se ne parla a Firenze
C’è dunque un modo di sfruttare e gestire il patrimonio artistico e culturale di un Paese che ne è ricco come l’Italia. È la "golden economy", l’economia dei beni culturali e ambientali, tema della . prima edizione del Florens 2010 (dal 12 al 20 novembre a Firenze). Ideata da Giovanni Gentile, direzione artistica di Davide Rampello, vuole stimolare una riflessione su innovazione tecnologica e gestionale e artigianato come bene culturale vivente, ospitata in ospedali e biblioteche, librerie e teatri della città e di comuni vicini. A Palazzo Vecchio, da giovedì 18 a sabato 20, si svolgerà il Forum Internazionale dei beni culturali e ambientali. Settanta relatori da tutto il mondo, economisti (da Jean Paul Fitoussi a Severino Salvemini), l’archeologo egiziano Zahi Hawass, l’inventore dei giardini verticali Patrick Blanc e manager di società globali, discuteranno i risultati di uno studio inedito che analizza il potenziale del settore culturale in Italia e altrove (l’indagine è stata condotta attraverso il Florens Index). Raffrontata con Usa, Uk, Germania, Francia, Giappone, Spagna e Grecia, l’Italia si posiziona a metà di una classifica guidata dagli Usa. Dal Florens Index emergono spunti: il fattore propulsivo del Paese è il sistema creativo (moda, design, architettura, artigianato), in cui siamo secondi solo agli americani. Nei media facciamo meglio solo della Grecia. Ma il capitolo peggiore è quello "culturale e ambientale": per patrimonio siamo in testa alla graduatoria, ma l’incapacità di sfruttarlo ci fa precipitare al quarto posto.