Antonio Giorgi, Avvenire 12/11/2010, 12 novembre 2010
MAR MEDITERRANEO, VIGILATO SPECIALE
C’ è un sorvegliato speciale annidato tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente. Un soggetto che sotto le apparenze bonarie di specchio d’acqua propizio ai commerci, agli scambi, al diporto e alle vacanze cela un’indole malandrina e un carattere bizzoso pronto ad esplodere con un terremoto, un’eruzione, un cataclisma, uno tsunami apocalittico. Come non bastasse, nei suoi abissi prossimi alle coste italiane nasconde un gigantesco vulcano sommerso che sembra una bomba che attenda solo l’innesco. Si chiama Mediterraneo questa minaccia che incuneata come una spada di Damocle tra tre continenti. Sì, Mediterraneo, il mare di casa nostra, presenza familiare ammiccante e sorniona per molti, ma non per la comunità scientifica internazionale e quella italiana in particolare che hanno imparato a diffidarne, tanto che 260 stazioni di rilevamento ne spiano istante per istante ogni mossa ed ogni respiro. Non si sa mai, questo mare così placido, che diresti incapace di provocare gli sfracelli altrove generati da un uragano o da una tempesta tropicale, è in realtà propenso ai peggiori colpi di testa. Lo dimostrano i 250 tsunami degli ultimi 4mila anni, alcuni dagli impatti devastanti per le civiltà costiere. Tsunami che una settantina di volte hanno toccato la nostra penisola, e di quello di Messina del 1908 ancora rimangono tracce manifeste. La dimostra, infine, la tormentata vicenda storica di un bacino di due milioni e mezzo di chilometri quadrati che si è formato, si è chiuso, si è prosciugato e poi riaperto fino ad assumere la connotazione odierna. Oggi, poi, a destare allarme tra i geologi è l’instabilità denunciata da quell’enorme vulcano nascosto nel Tirreno meridionale, non lungi dalle Eolie, il vulcano Marsili scoperto un’ottantina di anni fa e diventato di recente oggetto di una serie di progetti strategici del Cnr. Se Marsili dovesse esplodere o collassare – temono i ricercatori – si innescherebbero maremoti catastrofici. Marsili è ora un sorvegliato super speciale nel contesto di un mare controllato palmo a palmo. Il fatto è che il Mediterraneo, figlio della deriva dei continenti nati dalla primigenia Pangea e formatosi tra i 60 e i 70 milioni di anni fa, incarna il ruolo di emblema dei perenni spostamenti della crosta terrestre. Nulla infatti è eterno e immutabile, neppure un mare. Cinque milioni di anni fa la chiusura di quello che è oggi lo stretto di Gibilterra aveva portato al prosciugamento dell’immensa area occupata dalle acque e solo qualche centinaio di migliaia di anni dopo, nel Pliocene, i movimenti delle placche continentali riaprirono la porta verso l’Atlantico. L’acqua, irrompendo nel bacino in secca, raggiunse livelli inusitati, ancora 125 mila anni fa più alti di sette metri rispetto ai valori attuali. Il Mediterraneo – modesto specchio d’acqua di un’area periferica del pianeta – ha tuttavia inciso fin dall’inizio sulle dinamiche della vita sulla Terra. Impossibile? Basterebbe chiederlo, se mai fosse strada praticabile, all’uomo di Neanderthal la cui fine traumatica, che pure ha lasciato spazio all’uomo moderno, sarebbe imputabile ad un cataclisma registrato 40 mila anni addietro in Campania, quando saltò letteralmente in aria la zona dei Campi Flegrei, una supereruzione che modificò profondamente il clima globale perché la colossale immissione di zolfo nell’atmosfera abbassò in maniera significativa le temperature medie sconvolgendo delicati equilibri biologici. Al confronto l’eruzione di Santorini (3.600 anni fa) riuscì ad accentuare i rigori invernali solo per alcuni decenni, ma lo tsunami che se seguì provocò la fine della civiltà minoica a Creta. È la lezione del passato, dunque, che induce a fare di questo mare un soggetto da tener d’occhio senza distrazioni. Ne ha ben spiegato i motivi la mostra «Mediterraneo dinamico » che l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha allestito a Genova in occasione del Festival della scienza. Un percorso iniziato con uno sguardo all’evoluzione del mare negli ultimi 200 mila anni per poi affrontare anche le problematiche scientifiche legate al Marsili, il più grande – anche se il meno noto, perché invisibile – vulcano d’Europa, settanta chilometri di lunghezza per trenta di larghezza, un monte che si innalza per tremila metri rispetto al fondale tirrenico, con la vetta a 450 metri di profondità sotto il livello marino, una sessantina di miglia ad ovest della costa calabrese. Marsili, che deve il nome allo scienziato italiano Luigi Ferdinando Marsili, è un vulcano attivo inserito ai primi posti della lista dei più pericolosi. Le emissioni di gas sono frequenti e sui fianchi della montagna si nota l’insorgenza di numerosi apparati vulcanici satelliti. Ma non è questo a preoccupare gli studiosi dei terremoti. Laggiù nel Tirreno meridionale questo fratello sottomarino dell’Etna e dello Stromboli si caratterizza per i suoi pendii estremamente ripidi, e tracce di collassi di materiale sono state rilevate. Che accadrebbe se franasse una intera parete? «L’improvvisa caduta di una notevole massa di materiale, il cedimento di milioni di metri cubi di roccia – avverte il sismologo Enzo Boschi – possono generare un potente tsunami, un’onda d’urto che si ripercuoterebbe sulle coste della Calabria, della Campania e della Sicilia ». Disastrose le conseguenze, com’è facile immaginare. Boschi parla di indizi precisi di rischio reale anche se non quantificabile. Se è impossibile fare previsioni temporali quello che conta – aggiunge – è mettere in atto procedure continue di monitoraggio. A questo provvede il Cnr per mezzo del sistema cosiddetto multibeam, un sonar multifascio che irradia il fondo marino con onde acustiche. Interpretando la loro riflessione si possono accertare modifiche alla morfologia della zona sotto esame. Dallo scorso mese di febbraio la nave Urania dello stesso Cnr ha avviato una sistematica campagna di studi sul vulcano accertandone l’estrema instabilità, anche perché nella parte sommitale il Marsili è costituito da rocce di scarsa consistenza, indebolite per di più da fenomeni di alterazione idrotermale. Insomma, Marsili è come un ordigno che un giorno o l’altro può deflagrare. È di conforto il fatto che si trova nella condizione di sorvegliato a vista, sempre che questo basti a spegnere la miccia (traduzione: ad allertare le popolazioni costiere) prima che il fuoco raggiunga le polveri e una frana scateni il maremoto.