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 2010  novembre 07 Domenica calendario

VAN GOGH IL DIVO

«In un angolo dell’atelier aveva collocato il tronco di un vecchio albero abbattuto da una tempesta. Lo aveva segato e infilato in una cassetta piena di terra. Fra i rami aveva posto diversi nidi: Vincent raccoglieva quelli che erano stati abbandonati dagli uccelli durante le sue passeggiate nei boschi. C’era il nido a forma di cono dello scricciolo, il nido muschioso del falco, quelli semplici del passero e del tordo; il nido di usignolo costruito con meno abilità. C’era anche il nido lanuginoso del forapaglia; quello della rondine di ruscello, fatto di erba e argilla. E infine un paio di alcune specie di uccelli che costruiscono il loro nido a terra. Avrebbe voluto un nido di martin pescatore, fatto di lische di pesce, ma non era mai stato in grado di trovarne uno, sebbene lo avesse cercato a lungo con Theodore, anche lui appassionato di uccelli». È l’immagine di un van Gogh giovanissimo, quando abitava ancora con i genitori e i fratelli in un villaggio di tessitori del Brabante, zona meridionale dei Paesi Bassi. Immagine tratteggiata da una delle sorelle, Elisabeth, nata quando Vincent aveva sei anni e autrice di un libro di ricordi pubblicato nel 1910 e ora tradotto per la prima volta in Italia da Skira.
Il volumetto, appena novanta pagine in piccolo formato, esce in contemporanea con la mostra «Vincent van Gogh», inaugurata una ventina di giorni fa al Vittoriano, dove ha già attratto oltre sessantamila visitatori (resterà aperta fino al 6 febbraio 2011). E va di pari passo con l’idea dell’esposizione, curata da Cornelia Homburg, che ha voluto mettere in risalto un aspetto inedito dell’artista: le due inclinazioni contraddittorie che spesso guidarono il pittore nella scelta dei soggetti; da una parte l’amore per la campagna come ambiente fisso e immutabile, dall’altra il legame con la città, centro della vita moderna e del suo rapido movimento. La parte più interessante della mostra è proprio la prima, perché presenta le opere meno viste di van Gogh, la cui fama è legata, nell’immaginario collettivo, soprattutto ai quadri pieni di sole e di colori, dipinti più tardi nel sud della Francia, dopo il passaggio a Parigi e i contatti con gli Impressionisti. Ci sono in mostra anche alcune tele emozionanti legate a quest’ultimo periodo, come la «Vecchia arlesiana», alcuni autoritratti, gli strabilianti «Cipressi con due figure femminili», «I bevitori» ripresi da un disegno di Daumier, le Montagne a Saint-Rémy, con le tinte sfavillanti e le pennellate che si attorcigliano, ubriache di luce e al tempo stesso intrise di un tormento sempre sul punto di esplodere.
Ma ci sono, arrivati dai musei di tutto il mondo e da molte collezioni private, anche i disegni e i dipinti degli inizi, realizzati a partire dai primi anni Ottanta dell’800, quando, abbandonata l’idea di diventare predicatore come il padre, Van Gogh decise di dedicarsi alla pittura «non per dare piacere a un certo gruppo ma per esprimere un giusto sentimento umano», come confessò a se stesso. Ci sono, in questi primi lavori, i colori smorti della campagna olandese, tutta una sinfonia di bruni per raccontare la vita dei contadini, i loro casolari con i tetti di paglia ricoperti di muschio e i pavimenti di terra battuta che lui paragonava a nidi d’uccello. Ed ecco le varie versioni dei tessitori, ritratti con segni veloci e colori che hanno il sapore del fango, del fumo che intossicava gli interni umidi delle povere abitazioni. Ecco i contadini che seminano, zappano e raccolgono patate, chini sui campi scuri come i loro volti e le loro mani.
Quadri che rimandano alle descrizioni di Elisabeth: «Un pallido sole filtrava da una finestrella laterale e gettava una luce fioca nella stanza che aveva un soffitto basso e travi affumicate, dove i tessitori grigi e sporchi lavoravano con dita nervose sempre in movimento». Vincent a quel tempo «aveva organizzato il suo atelier nella casa del sagrestano della chiesa cattolica». Spesso gli mancavano i colori. Una mattina di febbraio voleva dipingere i contadini alle aste per la vendita della legna, ma si accorse che i colori erano finiti e la nuova partita non era ancora arrivata. «L’artista ci pensò un attimo poi prese carta da acquerello, andò in cucina, versò in un bicchiere un po’ di detersivo blu e dei fondi di caffè, e si avviò. Alle undici il disegno era terminato: la strada del villaggio immersa nella nebbia, le cataste di legna e i contadini che litigavano. Tutto era reso in modo straordinario».
Lauretta Colonnelli