Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 12/11/2010, 12 novembre 2010
IL DOSSI CENSURATO, LIBERTINO ANTICLERICALE
Dante Isella ha definito le Note azzurre di Alberto Carlo Pisani Dossi, in arte Carlo Dossi, i «pensieri di un libertino» dell’Ottocento. Il diplomatico e politico, nonché scrittore tra i più singolari (e appartati) della Scapigliatura lombarda, vi si dedicò tra il 1870 e il 1910, anno della sua morte (16 novembre). È uno straordinario zibaldone di riflessioni, aneddoti, ritratti, annotazioni di costume, di politica, di storia, citazioni, che fu vergato su sedici quaderni dalla copertina oltremare (da qui il titolo dell’opera). Un libro fuori dal comune che ebbe una storia editoriale fra le più travagliate della nostra letteratura. Solo ora, a cent’anni dalla morte del Dossi le Note azzurre vengono pubblicate integralmente da Adelphi, per di più consegnate a una triplice collocazione: un’edizione economica, un’edizione in volume unico nei Classici e un’edizione in due tomi che recupera la Ricciardi del Natale ’55 che non vide mai la luce per ragioni censorie. La complicatissima vicenda è dunque finalmente approdata al lieto fine auspicato per decenni da Isella e da Franco, il figlio dello stesso Dossi. Confermando peraltro che «il tempo è il più scienziato e il più pratico di tutti i medici», come recita la Nota numero 3247.
Ma per capirci qualcosa, nel dedalo della storia editoriale, bisogna affidarsi alla puntuale ricostruzione documentaria fatta da Niccolò Reverdini, pronipote dello scrittore, in un saggio intitolato I quaderni alla prova (compreso nelle edizioni adelphiane in uscita). Si parte dal 1911 quando Gian Pietro Lucini inserisce clandestinamente, nel suo saggio sull’amico Dossi appena scomparso, una serie di Note considerate dalla vedova Donna Carlotta «inopportune per gl’intimi stessi e soprattutto per i figli suoi», indiscrezione «mostruosa» sul «purgatorio matrimoniale» o sui «disturbi visivi, essiccamento di pelle, ateroma» dello scrittore. Ne nasce un primo caso giudiziario con successivo ritiro delle copie. La seconda tappa prevede un’edizione curata da Donna Carlotta e tesa a preservare l’intimità domestica, specie nella sfera sessuale, il buon nome delle persone care, l’onorabilità di personaggi famosi, compresi i «puttanieri» Porta e Rossini, il Manzoni (accusato di pederastia), e l’«illustre chiavatore» re Vittorio Emanuele.
Certo, Donna Carlotta ragionava con i suoi criteri religiosi, e dovette faticare non poco per arginare lo spirito anarcoide del marito, non fu però la bigottona che si volle far credere. L’edizione Treves del 1912, da lei curata, sopprime nomi e passi sgraditi, nonché intere Note scandalose, ma risparmia sorprendentemente osservazioni anticlericali o poco meno che blasfeme («Il diavolo ha resi tali servizi alla Chiesa, che io mi meraviglio com’esso non sia ancora stato canonizzato per santo»). I complimenti dei letterati più in vista dell’epoca, tra i quali Benedetto Croce, non si faranno attendere. Seguiranno altre edizioni antologiche (quella di Ugo Ojetti è del ’32, quella di Carlo Linati esce per Garzanti nel ’44).
Nel 1947, morta la sposa di Dossi, è già entrato in scena un giovanissimo studente di nome Dante Isella, che si sta laureando a Firenze con una tesi sulla lingua e lo stile dello scrittore, impostata filologicamente. Il suo interlocutore è ormai il figlio, Don Franco Dossi. Inizialmente si pensa di riesumare l’Epistolario, ma il progetto svanisce ben presto, superato dall’idea di recuperare integralmente le Note nell’imminenza del centenario dossiano che cade nel ’49. Il problema sono gli editori, peraltro «ben disistimati», da Don Franco. Aldo Garzanti rifiuta quasi subito. Intanto il maestro di Isella, Gianfranco Contini, nella primavera del ’49, viene invitato nella villa sforzesca di Corbetta per una cena a base di selvaggina e formaggi: il consiglio è di scrivere a Croce. Nel lungo carteggio, il Senatore riconosce la sua stima per Dossi, ma fa appello alle difficoltà economiche dell’impresa, proponendo una scelta antologica che non superi le trecento pagine. Niente da fare, dunque. Nel ’50 si fa avanti la Guanda, ma senza successo. Neanche le speranze riposte, fino al ’60, nell’Einaudi avranno esito positivo (il redattore capo Daniele Ponchiroli si prodigherà inutilmente). Naufragheranno anche i tentativi con Longanesi e con Casini. Finché Don Franco, nel ’52, rompe gli indugi e decide di finanziare personalmente l’operazione. Si chiude così, con la Ricciardi di Raffaele Mattioli, un contratto pieno di cautele giudiziarie: l’erede si assumerà l’onere di eventuali responsabilità civili o penali. Il direttore amministrativo è Alberto Vigevani, il tipografo Luigi Maestri. Isella si impegna a consegnare puntualmente i dattiloscritti definitivi e a seguire le bozze di tutte le 5794 Note, senza censure.
Il termine stabilito viene superato e Don Franco rischia di perdere la pazienza («Sono un piantatore di frumento e non di grane - scriverà all’editore nell’ottobre ’54 - ma ritengo necessario ottenere rassicurazioni molto precise»). Un anno dopo, l’impresa sembra compiuta. E i primi di novembre ’55 le arti grafiche Maestri stampano mille esemplari su carta comune e centocinquanta su carta a mano di Maslianico, in parte numerati. Isella ne fa subito rilegare quattro copie per il concorso di libera docenza. Ma passano pochi giorni e in legatoria arriva l’ordine di fermare le macchine. Mattioli, tardivamente, è stato assalito dagli scrupoli. C’è il rischio di azioni legali per diffamazione, come conferma l’avvocato Giacomo Delitalia. Si cerca di rimediare in extremis stilando liste di pagine da espungere: intervengono con diversi criteri il curatore, il penalista, Vigevani, lo stesso Mattioli. Ma sabato 3 dicembre Don Franco e Isella escono con le pive nel sacco dalla sede della Banca Commerciale di Milano. Il destino di Dossi, scriverà l’erede, «è di rimanere in ombra per i più». Le decurtazioni (che coinvolgevano persino delle Note salvate da Donna Carlotta) snaturavano il testo al punto da far desistere dalla pubblicazione. Solo 138 copie in carta di Maslianico, non ancora cucite, verranno salvate «per uso riservatissimo». Vi si aggiungerà, sul frontespizio, la didascalia «Prove di stampa» e la datazione 1956 e ne verranno omaggiati gli studiosi più eminenti con una didascalia cautelativa: «Queste bozze di stampa sono affidate alla discrezione e quindi alla responsabilità di…». Contini va su tutte le furie, ritaglia la dedica e la rispedisce al mittente.
Bisognerà aspettare il 1964 e l’editore Adelphi per recuperare il progetto ricciardiano: decurtato, su suggerimento di Alessandro Galante Garrone, di dodici Note considerate irriverenti, e prudenzialmente disseminato di asterischi. È un successo e la preziosa edizione, in due tomi, va presto esaurita. Una «maior» segreta (uguale a quella del ’56) viene allestita da Isella nello stesso anno, ma misteriosamente se ne conserva una sola copia nella biblioteca del curatore. Si renderà necessaria una nuova edizione adelphiana, nell’88. E sarà un nuovo successo. Solo oggi, però, possiamo leggere le Note senza censure.
Paolo Di Stefano