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 2010  novembre 12 Venerdì calendario

IL PRIMO «SOS» DI OBAMA. L’AUSTERITY D’AMERICA, IN PENSIONE A 69 ANNI —

L’America ferita ha bisogno della cooperazione di tutti per uscire dai guai economici nei quali si è cacciata. Più che battere i pugni sul tavolo, al G20 di Seul Barack Obama ha lanciato un SOS. Che, a poche ore dalla chiusura del vertice asiatico, sta cadendo nel vuoto: il compromesso al quale lavorano le delegazioni nella notte è, come accaduto già in passato, zeppo di buoni propositi ma pressoché privo di prescrizioni, di impegni vincolanti.
Il presidente americano sa benissimo che non è facile far digerire ai partner le richieste di una potenza imperiale che ha sprecato troppo in passato e che è la maggiore responsabile della crisi finanziaria che ha trascinato il mondo sull’orlo dell’abisso. È anche per questo che ieri, di prima mattina, è andato a celebrare il «Veteran’s Day» (la festività Usa dedicata ai veterani) e il 60° anniversario della guerra di Corea in una base dell’esercito degli Stati Uniti. Circondato da centinaia di soldati, aviatori e «marines» in mimetica, Obama ha pronunciato parole durissime contro il minaccioso regime di Pyongyang, ha assicurato ai coreani del Sud che potranno sempre contare sulla forza militare americana per difendere la loro democrazia dalle aggressioni e ha rievocato la crisi del 1950 quando - ha detto - l’America decise di correre in soccorso di un Paese che i suoi soldati non sapevano nemmeno dove fosse, «di un popolo mai incontrato prima»: 37 mila di loro morirono in Corea «per affermare un principio e impedire che si creasse il precedente di un Paese libero attaccato» e inghiottito da una dittatura.
Ringraziando i suoi soldati per il loro disinteresse e la loro generosità in un mondo nel quale oggi prevale «la cura dell’interesse particolare di breve periodo», Obama ha mandato anche un implicito messaggio ai partner: non saremo più i protagonisti assoluti sulla scena economica, ma rimaniamo la pietra angolare sulla quale si basano la vostra sicurezza e l’ordine internazionale.
Una richiesta di rispetto e di comprensione delle ragioni dell’America caduta nel vuoto prima ancora che iniziasse il G20: l’incontro col leader coreano Lee nel quale doveva essere annunciato l’accordo per il trattato di libero scambio tra i due Paesi, si è, invece, concluso con un nulla di fatto per il rifiuto di Seul, grande esportatore in America, di aprire il suo mercato alla carne e alle vetture «made in Usa».
Non è andata molto meglio negli incontri bilaterali di Obama col presidente cinese Hu Jintao e col cancelliere tedesco Angela Merkel, i due Paesi campioni del mondo di export, con bilance commerciali in enorme attivo, ai quali l’America chiede di consumare di più e di riversare una parte della loro produzione all’interno per compensare il rallentamento degli indebitatissimi Stati Uniti e lasciare loro lo spazio per vendere di più all’estero. Hu, che Obama ha già incontrato sette volte in meno di due anni di presidenza e col quale ha un buon rapporto personale, ha risposto con garbo, comprensione e qualche promessa. Ma sempre in un contesto di «piccoli passi».
La Merkel ha espresso il suo dissenso in modo più diretto: il riequilibrio lo devono realizzare i Paesi più deboli (leggi Usa) aumentando la loro competitività, non si può pretendere che siano quelli più forti a tagliarsi le ali.
Ma Obama non può aspettare i «piccoli passi» cinesi, né ha molti margini per aumentare la competitività, visto che la produttività delle imprese americane è già cresciuta moltissimo. L’impennata della disoccupazione nasce anche qui: se non verrà almeno in parte riassorbita entro due anni, costerà al presidente la rielezione e creerà una grave situazione di instabilità sociale e politica, con tutto quello che ciò comporta per la sicurezza collettiva e i rischi di un nuovo protezionismo. Tanto più che adesso Obama dovrà affrontare in patria anche la sfida del ridimensionamento del deficit e del debito pubblico. La commissione «bipartisan» di politici ed esperti nominata dalla Casa Bianca presenterà le sue proposte il primo dicembre, ma ieri ha fornito alcune anticipazioni che hanno lasciato senza fiato l’America: progressivo aumento (da 67 a 69 anni) dell’età per la pensione pubblica, meno coperture Medicare (la sanità pubblica per gli anziani), aumento (modesto) della tassa sulla benzina, via molti sgravi fiscali. Il tutto per cercare di tagliare da qui al 2020 il debito pubblico di 3800 miliardi di dollari, dimezzandone la crescita.
Probabilmente è stata la stessa Casa Bianca a far circolare le anticipazioni, anche per dimostrare ai partner del G20 che ha preso sul serio l’impegno antideficit di sei mesi fa al vertice di Toronto. Ma le reazioni del Congresso sono state furibonde, soprattutto da parte democratica. Obama non si è scomposto. Ha evitato di anticipare giudizi invitando il Congresso a fare altrettanto («siamo ancora alle bozze di ipotesi tecniche»), ma aggiunto che la resa dei conti è vicina e che i sacrifici richiesti saranno pesanti: «Dobbiamo dire agli americani la verità, dopo che troppi in campagna elettorale hanno continuato a parlare di politiche antideficit senza spiegarne le conseguenze per la gente».
Una stretta che sarà sostenibile solo se l’America riuscirà a compensare con l’export una domanda interna che non potrà che restare debole. Se i partner non ascolteranno l’SOS della «ricca» America, a Obama non resterà che utilizzare con ancora più spregiudicatezza l’arma del dollaro debole. Oggi il G20 non lo criticherà ufficialmente per averla sfoderata: su questo, almeno, il presidente Usa è riuscito a evitare l’accerchiamento.
Massimo Gaggi