Lorenzo Viganò, Corriere della Sera 11/11/2010, 11 novembre 2010
SULLE CIME TEMPESTOSE CON BUZZATI
«Ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che quelle». È il 26 settembre 1923, quando Dino Buzzati scrive queste parole all’amico Arturo Brambilla. Ha diciassette anni e si trova nella casa di famiglia di San Pellegrino, vicino a Belluno, dove trascorre le vacanze estive. Lì, molti anni dopo, nel dicembre 1971, ormai malato, tornerà a cercare un segno della madre che lo accompagni e lo sostenga nella «partenza con il reggimento», e proprio da lì, lungo la strada che lo conduce a destinazione, rivolgerà alle crode, ai «giganti taciturni», il suo ultimo, estremo (e rassegnato) saluto. «Ma è una giornata stupenda e poco dopo Brescia ad un tratto ho visto risplendere lontanissime al nord le montagne di vetro, pure, supreme, dove mai più; cari miraggi di quand’ero ragazzino rimaste intatte ad aspettarmi e adesso è tardi, adesso non faccio più in tempo».
Negli anni (quasi 48) che separano questi due momenti, le montagne diventano per Dino Buzzati una presenza costante e viva. Con esse stringe un legame personale e profondo. Unico. Un legame che non si spezzerà mai. Le sogna, le desidera, le sfida, le viola scalandole, le teme. Ma soprattutto le racconta, facendone uno dei punti fermi del suo mondo poetico ed esistenziale, e raccontando, attraverso loro, se stesso: i sogni, le paure, le ambizioni, le sconfitte; le speranze della giovinezza e le rinunce della vecchiaia; la fragilità dell’uomo, così piccolo e provvisorio vicino a quelle rocce tanto grandi, forti e immortali.
Il Buzzati pittore le dipinge, trasfigurandole poeticamente sulla tela. Il Buzzati scrittore ne fa lo scenario dei suoi primi romanzi: metafora del mistero, simbolo di un mondo ancestrale e fiabesco, popolato da gnomi ed elfi, retaggio di antiche storie nordiche ascoltate da bambino. Il Buzzati giornalista le racconta ai lettori scrivendo centinaia di cronache e articoli che, a leggerli oggi uno dopo l’altro nell’antologia I fuorilegge della montagna attraversano come un filo rosso la sua intera carriera giornalistica. Pari, se non più numerose, dei pezzi di nera, delle corrispondenze di guerra, delle storie da inviato, delle pagine dedicate all’arte.
Dai resoconti dei raduni dei giovani fascisti durante il Ventennio ai ritratti di alpinisti celebri; dalle descrizioni delle sue cime preferite, Dolomiti in testa, ai racconti delle grandi imprese, tra cui la conquista del Bianco e del K2. Cronache, riflessioni e resoconti, che Buzzati scrive soprattutto per il «Corriere della Sera», che oltre a testimoniare piccoli e grandi fatti, oltre a raccontare imprese e conquistatori, diventano lo specchio di un mondo che si trasforma. Disegnando al contempo il ritratto di un uomo, lo stesso Buzzati, che si è sempre sentito alpinista e ha sognato quelle pareti per tutta la vita, da quando, bambino, ne cantava la purezza, a quando le «sentirà» ormai troppo alte, ripide e marce per poterle desiderare (e scalare) ancora.
I fuorilegge della montagna racconta l’intensità di quel lungo e articolato rapporto attraverso i temi su cui si è sviluppato. Un rapporto che ha al centro la montagna, vinta e invincibile, e i suoi eroi: quei «fuorilegge» che avevano con le cime un contatto diretto, senza guide, ed erano visti come «dei giovani arrabbiati, dei ribelli, dei sovversivi, dei rivoluzionari, (…) dei pazzi da tenere alla larga». Gli unici, però, scrisse Buzzati, cui «la grande montagna abbia rivelato i suoi più gelosi e potenti segreti. E non ai poveretti come me, che hanno avuto paura».
Ciò che rende speciali le cronache alpinistiche di Dino Buzzati è il fatto di unire la sensibilità narrativa al mestiere di giornalista scrupoloso e attento, l’essere sempre sulla notizia, al legame, diretto, personale, poetico e atletico, con le cime. «Io sono diventato alpinista», scrive a tredici anni, con orgoglio e un pizzico di ingenuità, ad Arturo Brambilla. È l’agosto 1920, e da allora al settembre 1966, quando, a sei anni dalla morte, scalerà per l’ultima volta l’amata Croda da Lago, Buzzati compie circa cento ascensioni. Non importa se oltrepassa raramente il terzo grado; ciò che conta è che quell’amore, quell’orgoglio di appartenenza gli permettono di interpretare il vero significato di ogni impresa, e di capire i sentimenti — di conquista e di entusiasmo, ma anche di paura e sconfitta — di chi la compie.
Lo dimostrano i ritratti dei grandi scalatori, da Paul Preuss a Walter Bonatti, di cui descrive i successi, ma anche, di alcuni, la morte assurda e maligna, che arriva a tradimento e li umilia: più che articoli, veri racconti, viaggi nelle loro paure e soddisfazioni, nell’oblio che spesso, impietosamente, ne accompagna la vecchiaia. Lo confermano gli articoli sull’alpinismo, le cronache delle grandi imprese, le storie delle montagne sempre più insidiate da funivie e impianti di risalita, attraverso cui si coglie il cambiamento della società e dei costumi.
Come accade con lo sci, che Dino Buzzati pratica fin dagli albori e che negli ultimi anni va a sostituirsi alle ascensioni. Di questo sport, Buzzati evidenzia e analizza ironicamente gioie e assurdità, mettendosi in gioco per primo, perché lo sci, dirà, gli restituisce il piacere del gioco, la giovinezza; perché è l’immagine perfetta della felicità, la metafora della vita.
E perché, in fondo, è solo un altro modo di sentire la montagna. La «sua» montagna, sognata ogni notte e immaginata, desiderata, evocata nelle lunghe e grigie giornate milanesi. Quando al «Corriere», seduto al tavolo di redazione, annotava: «E mentre noi qui nella calda città scriviamo e il tram cigola malamente alla voltata, lassù i pallidi giganti misteriosi stanno in silenzio».
Lorenzo Viganò