Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 11 Giovedì calendario

FUGA DI CERVELLI VERSO FACEBOOK. GOOGLE ALZA GLI STIPENDI DEL 10% —

Per Google è una «tassa Facebook»: il 10% di aumento di stipendio per tutti e 23 mila i dipendenti della più grande concessionaria di pubblicità online al mondo per convincerli a restare. Ad annunciarlo con una email interna è stato il chief executive officer del gruppo di Mountain View, Eric Schmidt. Che ha motivato: «Vogliamo che i nostri dipendenti si sentano gratificati per il duro lavoro». La fuga della notizia all’esterno è avvenuta grazie a un blogger della Silicon Valley prontamente ripresa dal Wall Street Journal e poi rimbalzata sulla stampa globale. Ma quello che non si diceva nella lettera di Schmidt è che alla base della decisione c’è la fuga dei cervelli soprattutto verso Facebook. Una tassa, appunto, che il gruppo — noto anche per essere riuscito a pagare dalla sua fondazione 3,1 miliardi di dollari in meno al ferocissimo Fisco Usa grazie alla residenza fiscale in Irlanda — si è ora autoimposto per drenare un’emorragia che stava diventando seria e pericolosa.
Ufficialmente si tratta di ex googler — come sono chiamati i dipendenti del gruppo — «traditori». In realtà sono già da tempo nel pantheon dei miti della grande G: sono coloro che ce l’hanno fatta due volte. Prima in Google, adesso strapagati nell’esuberante mondo del social network appena immortalato, non senza ombre, da Hollywood ( The social network). La lista è lunga: David Fisher, Sheryl Sandberg, Elliot Schrage e Bret Taylor, uno dei creatori di Google Maps, sono tutti vicepresident rubati dal più giovane miliardario del mondo, Mark Zuckerberg, ai due fondatori del motore di ricerca, Larry Page e Sergey Brin. D’altra parte chi vuole lavorare con dei trentenni suonati nella Silicon Valley? Ironie a parte, il problema è serio. Secondo la rete professionale LinkedIn sono oltre 254 gli ingegneri passati alla società concorrente in odore di quotazione a Wall Street. Alcune stime parlano del 10% della forza lavoro. Senza contare gli irraggiungibili come Gokul Rajaram, ex googler noto con il soprannome di «goodfather of AdSense», in sostanza il padre della piattaforma pubblicitaria online di Google. Rajaram che si era staccato fondando una sua start-up, la Chai Labs Inc., è stato «acquistato» da Facebook per 10 milioni di dollari lo scorso agosto.
Grazie a tutti loro adesso chi è in Google potrà godere dell’aumento del 10% della busta paga, un cambio anche storico di strategie per la Silicon Valley visto che non si parla più di bonus o incentivi ma di stipendio fisso. Per certi versi è la concorrenza, nella sua forma più pura. Gli spiriti animali di Adam Smith hanno ritrovato nuove energie in California con la New Economy 2.0. Lo dimostra anche una notizia che ieri deve aver fatto tremare le vene a Mountain View: secondo la società di rilevazioni web Usa, ComScore, Facebook nel terzo trimestre del 2010 è diventata la prima società in assoluto nella raccolta della display Ads (advertising) online. Segno che quei soldi usati per attrarre le migliori risorse sono stati usati bene. Ma è anche la traccia di una potenziale parabola esistenziale per le società che rispetto al passato risultano compresse in pochi anni: Google è nata solo nel ’98. Nel frattempo ha decretato la fine di una lunga serie di motori di ricerca, da Lycos ad Altavista ed Excite. L’ultimo requiem è stato suonato proprio ieri: Ask.com, storico marchio Usa che negli Anni Novanta sembrava il nuovo Mida del web, ieri ha abbassato le saracinesche dell’ennesima garage-story. Ma adesso, prima ancora di entrare nel tredicesimo anno di vita, pur controllando il 65% delle ricerche online (dati Nielsen) Google deve pagare di più per convincere le persone a rimanere. Schmidt & co. sono stati bravi a capirlo in tempo. Si vedrà ora se appeal del marchio più soldi faranno la differenza.
Massimo Sideri