Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 11/11/2010, 11 novembre 2010
NEL SACRO DELL’IMPERO
Ho scoperto delle vespe sulla scogliera . Mandatemi Rospo», ordina al cellulare Claudia Del Monti, l’architetto che da ventitré anni segue i restauri e la messa in sicurezza dell’area di fronte al Colosseo, dove sorge il tempio di Venere e Roma, la cui inaugurazione è prevista per questa mattina e l’apertura da domani, per la prima volta, al pubblico. Paolo Rospo è un dipendente della Soprintendenza del Foro Romano-Palatino che si occupa dei servizi di disinfestazione. La manutenzione ordinaria di un’area archeologica prevede anche questi piccoli particolari, come sottolinea Roberto Cecchi, da un anno e mezzo commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia antica, nel suo «Secondo rapporto» sul progetto di tutela del patrimonio romano.
«Questo patrimonio — dice Cecchi — non si tiene in piedi con interventi spot, discontinui e casuali, mossi dalla frenesia di risultati a brevissimo respiro, ma con un progetto-programma complessivo di conservazione e al tempo stesso di fruizione pubblica. Tre mesi dopo l’incarico ho cominciato a verificare con i funzionari e i responsabili di zona delle varie Soprintendenze i punti di criticità. Da queste verifiche è nato il parco-progetti con settanta cantieri aperti. Alcuni lavori sono già conclusi. Come il tempio di Venere a Roma, la vigna Barberini, le Arcate severiane, il terzo ordine degli spalti del Colosseo, che avevano risentito del terremoto dell’Aquila». I punti più a rischio? «Restano quelli nella parte occidentale del Palatino. Ma per questi abbiamo studiato un sistema di monitoraggio sia terrestre che satellitare e sono sotto controllo». Insomma non dovrebbero esserci brutte sorprese, come i crolli a Pompei. «Abbiamo lavorato perché non accadano. Anche se il pericolo di dissesti legati alla presenza di cavità sotterranee risulta molto diffuso sulla collina e rappresenta il principale fattore di rischio per i monumenti».
Tra i particolari del suo programma di interventi, che Cecchi ci tiene a sottolineare, c’è la trasparenza. «Per il tempio di Venere e Roma, come per gli altri monumenti, abbiamo prima pubblicato i lavori che si intendevano fare, i costi, i tempi. Alcuni restauri durano anni. Noi abbiamo rispettato le scadenze al minuto». È vero. Lo dimostra il cronoprogramma pubblicato a pagina 285 del Rapporto. Il finanziamento era di 264 mila e uro. Dice l ’ architetto Del Monti che ne sono stati spesi 250 mila. Il progetto comprendeva le opere necessarie a verificare lo stato di conservazione del tempio, a dieci anni di distanza da un primo restauro realizzato in occasione degli interventi per il Giubileo del 2000 e a consentirne l’apertura al pubblico. Oggi è la prima volta, dopo oltre mille anni che le due celle del tempio, in origine connesse strettamente l’una all’altra e poi separate dalle vicende storiche, si possono rivedere in un unicum, così come le aveva concepite Adriano nel 121 dopo Cristo. L’imperatore aveva voluto riunire in un solo tempio Venere e Roma, per dimostrare la stretta connessione tra l’origine divina della gens Iulia e il potere raggiunto dall’impero romano nel mondo antico. Situato sul lato sud-orientale della collina Velia, con una splendida vista sul Colosseo e in un’area collegata a tutti i punti della città, esteso per circa un ettaro di superficie, il tempio bifronte era il più grande della capitale dell’impero. Aveva due celle opposte, dedicate una a Roma e l’altra a Venere e unite fisicamente da un muro continuo. Questo muro diventa invece divisorio intorno al VII secolo, quando la cella di Roma viene inglobata nel convento di Santa Francesca Romana e quella di Venere trasformata in orto. Secondo le fonti storiche l’edificio adrianeo bruciò nell’incendio del 283 dopo Cristo e venne successivamente restaurato da Massenzio. Ris a l gono alla ricostruzione massenziana i resti che vediamo oggi: le celle con le due absidi contrapposte, la copertura a botte con soffitto a cassettoni un tempo decorati a foglia d’oro, le edicole delimitate da colonnine di porfido. Delle immense colonne in marmo preconnesio, bianco e prezioso per la sua particolare luminosità, resta appena qualche frammento. Ventidue erano disposte in doppia fila sui lati lunghi e dieci sui lati brevi. Negli anni Trenta del secolo scorso Antonio Muñoz le sostituì con un viridarium di ligustri, oggi eliminati perché le radici avevano inglobato e sollevato le strutture adrianee. Un piccolo frammento di panneggio in porfido è tutto ciò che romane della dea Venere, rappresentata in piedi con un amorino nella mano destra.
Lauretta Colonnelli