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 2010  novembre 11 Giovedì calendario

Cercasi un sogno per il 2050 - Cercare di guardare avanti è molto utile ma è tutt’altro che facile

Cercasi un sogno per il 2050 - Cercare di guardare avanti è molto utile ma è tutt’altro che facile. È sempre vero che dovremmo alzare lo sguardo dalle nostre piccole preoccupazioni di ogni giorno, e in particolare dal quotidiano show della politica, e cercare di pensare a lungo termine, guardare alle tendenze reali piuttosto che al baccano e ai personaggi. C’è un piccolo problema, però: non possiamo prevedere il futuro. Quel che possiamo e dobbiamo fare, comunque, è cercar di capire come potremmo rendere quel futuro migliore. «Se non hai un sogno - dice Dorothy nel Mago di Oz - come puoi sperare che si avveri?». Allora dovremmo sognare e poi pensare a come rendere il nostro sogno realtà. Pensate ai nostri antenati e immaginate che anche loro siano stati riuniti in Veneto un centinaio di anni fa, nel 1910, e invitati a discutere i principali trend globali, economici, tecnologici e politici per i futuri 40 anni, per dire «Benvenuto al Capodanno 1950». Cosa potrebbero aver detto, e su che cosa i fatti avrebbero dato loro ragione? Potrebbero aver cominciato con l’osservare che la loro versione contemporanea della globalizzazione, l’apertura delle frontiere al commercio, ai capitali e alle persone, aiutata dalla navigazione a vapore, dalle ferrovie e dai telefoni, sarebbe continuata e ancora progredita, supportata dagli imperi europei e dagli investimenti che si stavano diffondendo in tutto il mondo, e dal contributo emergente dell’America. La crescente interdipendenza tra le maggiori economie rendeva la guerra sempre meno probabile, perché i Paesi ora avevano troppo da perderci. In realtà, Norman Angell, un britannico, proprio quell’anno pubblicò un libro (La grande illusione), che divenne un bestseller, parlando esattamente di questo argomento. Il suo sogno era che la guerra fosse ormai obsoleta e irrazionale e pensava che fosse realtà. Perciò i nostri antenati avrebbero potuto legittimamente prevedere che la Germania per certo, e forse anche un Paese asiatico, il Giappone, per il 1950 sarebbero dovute essere tra le nazioni più ricche del pianeta. Accanto a questi nuovi poteri ci sarebbero stati sicuramente l’Argentina e il Brasile, già prosperi grazie agli investimenti europei e al fiorente commercio delle materie prime. In finanza, il gold standard era una certezza consolidata e si pensava che tale sarebbe rimasta. L’automobile stava mostrando allora il suo evidente potenziale come nuova tecnologia e mezzo di trasporto, anche se non era ancora chiaro se sarebbe stata alimentata principalmente dall’elettricità o dal motore a combustione interna. I fratelli Wright avevano da poco dimostrato che il volo era possibile, ma il nostro incontro del 1910 avrebbe ben potuto concludere che era più probabile che i palloni aerostatici e dirigibili piuttosto che i velivoli diventassero vettori di trasporto per passeggeri e merci. Col senno di poi, possiamo vedere quanto avrebbero sbagliato i nostri antenati e il loro errore sarebbe apparso chiaro appena quattro anni dopo, quando scoppiò la Prima guerra mondiale. La previsione sulla Germania e sul Giappone era corretta, ma ci vollero altri 60-70 anni, non quaranta, due guerre e il crollo della globalizzazione. Inoltre, le tecnologie cruciali degli anni a venire - ad esempio il petrolio, gli aerei a reazione, la radio - erano sconosciute o sottovalutate. Qualcuno potrebbe dire che nel 2010 gli esseri umani sono diventati molto più bravi nelle loro previsioni rispetto al 1910. Non sono d’accordo. Possiamo avere più tecnologia, esperienza e specializzazione economica, ma i nostri sforzi saranno sempre confusi dalle stesse cose: la complessità delle società umane, l’equilibrio difficile in ogni società fra conflitto e cooperazione, gli istinti di violenza e egoismo che in un secondo possono portare le società su strade del tutto diverse. La guerra agli occhi di molti può essere irrazionale ma non è obsoleta. Possiamo, invece, fare due cose. Possiamo pensare non a ciò che prevediamo per il 2050, ma a quello che speriamo di vedere entro la metà del secolo. E in secondo luogo possiamo discutere di quali azioni possiamo intraprendere nel corso della nostra vita per rendere più probabile un buon risultato. Il nostro sogno per il 2050 dovrebbe essere che per quella data molti dei Paesi oggi più poveri abbiano raggiunto un livello di sviluppo economico e un tenore di vita almeno equivalente a quello goduto attualmente dalla maggior parte dell’Europa. Stando così le cose, quindi, Cina e India saranno le due più grandi economie, ma la loro crescita sarà anche stata accompagnata dalla crescita di molti piccoli Paesi in via di sviluppo. In Africa, su un periodo di 40 anni, dobbiamo sperare che la maggior parte del continente abbia potuto svilupparsi come la Corea del Sud ha fatto dal 1960, quando il suo tenore di vita era più o meno simile a quello del Ghana, al 2000, quando era, pare, vicino al livello del Portogallo. Dovremmo sperare, anche, che questa crescita sia stata accompagnata da un mix di cambiamento tecnologico e intervento governativo che renda questo livello di sviluppo mondiale compatibile con un clima globale abbastanza stabile e con un ambiente sostenibile. Questo significa che dal 2010 al 2050 occorrerà sviluppare le nuove tecnologie pulite più rapidamente di quanto sia stato fatto con motori, aerei e tecnologia nucleare tra il 1910 e il 1950. Inoltre, soprattutto da un punto di vista egoistico europeo, dovremmo sperare che siano stati trovati modi per superare il fardello della demografia, del forte invecchiamento delle nostre società nei prossimi 40 anni, così da mantenere la nostra produttività e quindi innalzare il nostro tenore di vita. È una scena piuttosto idilliaca. Eppure, gli incredibili progressi compiuti dal 1960, e in particolare dal 1980, in Asia, che ospita la metà della popolazione mondiale, sicuramente ci dicono che questa speranza non è una fantasia. Ogni iPhone che abbiamo nelle nostre tasche, ogni scanner a risonanza magnetica per immagini che utilizziamo nei nostri ospedali, tutti i voli di lungo raggio che facciamo su un jumbo jet ci mostrano che abbiamo sottostimato la forza del progresso tecnologico e quindi ci danno maggiori speranze per il futuro. Anche il modo in cui siamo riusciti a evitare la Guerra fredda diventando amichevoli, il modo in cui abbiamo contenuto i conflitti in Vietnam, in Medio Oriente e in Africa al livello di guerre locali piuttosto che globali, dovrebbe darci speranza. Quindi che dobbiamo fare? La ricetta è semplice da enunciare, ma è difficile capire esattamente come applicarla. Abbiamo bisogno, innanzitutto e soprattutto, di lavorare per mantenere quei fattori che ci hanno permesso di progredire così tanto negli ultimi 40 anni: e che sono il libero scambio, il trasferimento di capitali e tecnologia attraverso i confini e la pace internazionale. Globalizzazione più sicurezza. Ma naturalmente salvaguardare questi fattori non è semplice, né lo è il compito di riconciliare crescita e ambiente. Due importanti evoluzioni politiche renderebbero questo scenario più probabile: il primo è l’emergere, in modo stabile, di un governo affidabile e all’incirca democratico in Cina. Come ha scritto Francesco Sisci su La Stampa, questo può accadere una volta che la necessità di una tassa sulle persone fisiche in Cina porti con sé l’esigenza di rappresentanza. Ma potrebbe non essere così semplice e pacifico. La seconda evoluzione necessaria è che l’America resti - o si riaffermi, direbbe qualcuno - senza ombre come la superpotenza mondiale, la risorsa risolutiva in caso di conflitto, il garante ultimo della sicurezza. In altre parole, per evitare, ad esempio, un conflitto tra Cina e India, abbiamo bisogno di lavorare per mantenere l’America forte e impegnata. Senza uno sceriffo, il mondo potrebbe facilmente scivolare nella contrapposizione. L’ambiente è la nostra più grande sfida. Cerchiamo di non sprecare tempo preoccupandoci che la Terra finisca a corto di risorse: questo è un mito, e a dimostrarlo sarà, come è sempre avvenuto, un mix di tecnologia e di risorse sostitutive. Cerchiamo invece di concentrarci sul vero problema, vale a dire il clima globale. È il punto cruciale, non solo perché l’aumento delle temperature rischia di rendere il clima più instabile, ma anche perché le conseguenze possono provocare conflitti. Così, per arrivare al 2050 e al nostro sogno, abbiamo bisogno di fare ciò che voleva ottenere, ma fallì, il vertice di Copenhagen sul clima dello scorso anno: raggiungere un accordo internazionale sulla riduzione delle emissioni di gas serra, in modo da stimolare il cambiamento tecnologico, a livello generale, con una politica dei prezzi, e in maniera tale da coinvolgere tutti i Paesi. Non possiamo sapere quali tecnologie domineranno il nostro mondo nel 2050, non più di quanto possiamo sapere quale sarà allora la situazione economica e politica. Ma possiamo sognare, e lavorare per il nostro sogno e, pensandoci su, berci una grappa.