Riccardo Muti, La Stampa 10/11/2010, pagina 1, 10 novembre 2010
Io a Milano come Totò e Peppino - Alla fine del 1961 il maestro Napoli fu mandato a dirigere il conservatorio di Milano: mi consigliò di trasferirmi
Io a Milano come Totò e Peppino - Alla fine del 1961 il maestro Napoli fu mandato a dirigere il conservatorio di Milano: mi consigliò di trasferirmi. Fu necessario un consiglio di famiglia; mia madre decise per il sì, anche se allora andare tanto lontano ricordava a tutti Totò, Peppino e la malafemmina: nell’immaginario di un ragazzo del Sud non poteva trattarsi d’altro che di un luogo remoto, misterioso e fantastico. Arrivai il 2 novembre 1962: «L’è el dì di mort, alegher!» c’era da dire se avessi saputo mezza parola di dialetto. Le esecrazioni con cui il babbo e la mamma mi avevano preparato al viaggio erano terribili, come Totò nel film di Mastrocinque: «Bada che c’è freddo, a Milano c’è la nebbia, ti prendi la polmonite». Mi comprarono addirittura un cappello Borsalino (non ne avevo mai portato uno in vita mia, e per me era quello della famosa battuta di Gassman nel Sorpasso, un film di quell’anno: «Nonne’, sta attento che te vola er Borsalino!»; o della poesiola di Petrolini: «È importante ricordarsi / che si parte domattin: / sarìa triste allontanarsi / senza avere il Borsalin»), ci aggiunsero persino una sciarpa di lana. Arrivai da solo, scesi dal treno e pensai immediatamente al colbacco di Totò e De Filippo nel film; ci mancava l’orso bianco, tant’era diverso il mondo da quello di Napoli cui ormai ero avvezzo! (...) Un giorno, durante le prove con il gruppo degli strumentisti in sala Puccini, aprirono la porta con un rumore infernale ed entrò una ragazza saltellante, zampillante, perché credeva che lì ci fosse la prova di coro. Io ero allievo, è vero, ma sul podio vestivo i panni dell’«autorità», o meglio – mettiamola così – mostravo l’autorevolezza del maestro, e allora, con un gesto imperioso, le feci segno di uscire. La signorina che stavo mandando via era Cristina Mazzavillani, quella che il 10 giugno del 1969 sarebbe diventata mia moglie. Quando chiese in giro chi fosse quel ragazzo, le risposero: «il Moro», perché in conservatorio, per via dei miei capelli che allora erano neri e foltissimi, o forse con una venatura di razzismo, mi chiamavano così. Ci conoscemmo dopo poco, le avevano detto chi era il «Moro», l’avevano rassicurata non trattarsi di Otello, aggiungendo che ero sempre imbronciato e portavo il cappello. Era vero dai tempi del mio viaggio al Nord, ma lo smisi un giorno all’improvviso quando incontrai un mio vecchio amico, Domenico D’Aquino, impiegato ai telefoni per sbarcare il lunario, e in conservatorio studente di chitarra classica. (...) D’Acquino era un pezzetto di Napoli impiantato nel severo conservatorio lumbard. Proprio un altro mondo: a me è servito però – nonostante le differenze – per continuare un tipo di severità simile per certi aspetti a quella del Sud. Ciò che mancava era l’humour della mia adolescenza. Per me, pugliese – o meglio apulo-campano – significava respirare una silenziosa disciplina di stampo austroungarico. (...) Quella mattina D’Acquino mi incontrò nell’atrio: «Guè, Ricca’, ch’ ee fatto? mme pare Barièllo»; io non potei fare a meno di chiedergli chi fosse tale «Barièllo », e lui soddisfatto: «U cazzo co’ cappiello». In quel momento me lo tolsi e non me lo sono più rimesso neppure quando mi sono trovato a quaranta sotto zero, e fu la fine ingloriosa di tutti i discorsi di mia mamma sul Borsalino, il freddo, la polmonite e l’orso bianco alla Stazione Centrale!