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 2010  novembre 10 Mercoledì calendario

MY FAIR PAPI E LA CENSURA DELLO STABILE

Pietrangelo Buttafuoco è un ossimoro. L’inclassificabile apolide di natali missini che indossa l’eskimo come un barone siciliano e al rimpianto di un irrecuperabile passato, preferisce il graffio scorretto del presente: “Ho ascoltato Fini a Bastia Umbra. La pallida ingenuità dell’ignoranza mi commuove. Era giulivo per aver citato Saint-Exupery, uno Zarathustra per camerieri”. L’ex frequentatore notturno di trattorie ora redento che per magrezza, smorfie e barba incolta ricorda Pippo Fava: “Ma non ne sono degno”, si laurea su Junger e colloquia con Bobbio, costringendolo alla rivelazione: “Eravamo tutti fascisti e ci vergognavamo di dirlo”. L’eretico che liberalizzerebbe la droga e affossa i nuovi demolitori: “Li ho visti Renzi e i suoi a Firenze, sono l’ala sinistra di Comunione e liberazione: finiranno abbracciati a cantare messa”. Lo stesso che Cita Battiato, venera Sciascia e ironizza come l’amato Carmelo Bene sulla democrazia “condominiale” : “Un sistema eccellente per rifornire d’acqua tutto il caseggiato”. Con ogni evidenza, Buttafuoco Pietrangelo da Agira, Enna, quasi mezzo secolo di vita errante, ha sbagliato epoca. In una giornata di pioggia, a due passi dalla sede della Mondadori: “Guardate questi fregi sul soffitto, sono di epoca massonica, qui dentro, prima che ristrutturassero per timore, ogni mattonella sapeva di loggia”, cammina con andatura distratta. Il giornalista che a 29 anni mostrò la vera anima del professor Toni Negri intervistandolo tra nebbie e boulevard parigini, svelandone i rimpianti criminali: “Biagi, Bocca e Montanelli? sarebbe stato meglio per loro essere assassinati, così ora non sarebbero costretti a fare i buffoni”, continua a respirare da anarchico. A Catania, dove da cinque anni era presidente dello Stabile, il terzo teatro italiano, qualcosa non è andato per il verso giusto. Per il Pdl, quelli come lui, pensano troppo. E chi pensa, è il più grande nemico di una equilibrata perfezione spartitoria. Oggi a me, domani anche. Buttafuoco ha sparigliato, confuso, sovrapposto i piani. Cacciarlo è diventato un imperativo. Lui risponde come si trovasse a Bronte nel 1860 e nella rivendicazione dell’orgoglio, lascia strada anche all’ironia. “Non ci metterò più piede finché Governo regionale e Provincia non saranno conseguenti all’impegno preso. Quello di nominare un Cda degno di un ente culturale e non di un consiglio di quartiere”. Là dove Buttafuoco portava De Gregori senza chitarra a conversare con gli studenti, Tornatore, Calabrese, Bennato e una compagnia trasversale, che è il segno distintivo di chi guarda alle intelligenze prima che alle tessere, qualcuno ha preteso intervenissero altre logiche. La conversazione che segue è un saggio minore sull’omicidio di un’esperienza eretica.
Cosa è successo?
Che lo Stabile di Catania è una perla senza padroni e qualcuno ha pensato di gestirne il potenziale a colpi di clientele attaccando un cartellino.
La sua reazione?
Ho rimesso il mio mandato.
Sabato scorso si è svolto un consiglio di amministrazione.
C’ero, c’ero. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare.
Dica.
Si è scomodato perfino il governatore Lombardo. Seduto allo stesso tavolo con il presidente della Provincia Castiglione: Sono nemici storici, si guardavano in cagnesco, cinema puro.
Strano?
Roba da segnare sul calendario. E infatti Stancanelli, sindaco di Catania, mi ha detto scherzando ma non troppo: ‘Pietrà, siamo in minoranza. Gli unici camerati siamo noi, gli altri sono tutti democristiani. Ci fregano’.
Quando la chiamarono, nel 2005, le cose apparivano diverse.
All’epoca in cui io e il direttore artistico Giuseppe Dipasquale cominciammo, il debito era consistente. Lentamente, lo ripianiammo con i crediti.
Avete soci nell’impresa?
Regione Sicilia, Provincia e Comune di Catania, Camera di Commercio.
Come si comportano?
Dovrebbero quanto meno sbrigarsi a erogare i denari. Se non arrivano i contanti, dobbiamo chiedere prestiti alle banche. Improvvisamente poi, deflagra una strana voglia di liquidare il direttore artistico.
Chi smania?
E’ un prurito politico, che ha origine dalle parti del parlamento siciliano.
Non sia criptico.
I parlamentari del Pdl alla Regione iniziano a dire ’dobbiamo guardare i conti’. Alzano il dito contro la piéce tratta da Camilleri “Il birraio di Preston”, che brucia date ovunque e secondo loro, è costosissima. Per inciso, Camilleri che è un mio amico, ha ceduto i diritti gratuitamente.
Di fronte alla richiesta di chiarezza lei si preoccupa?
Neanche un po’. Per onestà mi farei ammazzare. Abbiamo i revisori dei conti e penso, il sostegno di Nino Domina, ex segretario generale dell’Università di Catania. Persona serissima, galantuomo vero.
Quindi?
Il maligno si mette di mezzo. Domina decide di rinunciare al suo compenso. ‘Sono in pensione, lo faccio per passione. Però non voglio gravare con il mio onorario’ dice. Come sempre, la parola gratis scatena appetiti incontrollabili: il posto è libero: bisogna metterci qualcuno, riempire la casella, targare.
Qui entra in gioco la politica?
Emerge l’idea di affiancare al direttore artistico un direttore amministrativo. Ma la legge Tognoli per i Teatri non lo prevede. L’argomento mi pareva definitivo.
Invece?
Sa qual è la verità?
Ci aiuti.
Che tutte queste cose non si faranno più: perché è passato l’entusiasmo. Quando accade, riaccenderlo è complicato. Volevamo riportare in vita a costo zero anche il giornale di Nino Martoglio, il D’Artagnan: doveva dirigerlo Sergio Claudio Perroni.
Perché un finale così amaro?
Il posto di direttore artistico fa gola a tutti. A marzo, ormai è chiaro, si voterà alle nazionali e poi, in un effetto domino, anche alle regionali. Bisogna mettere pedine, sistemare le brame, accontentare i contraenti.
Le hanno dato del sinistrorso.
Follia. Il giorno del Cda, in una mattina meravigliosa di luce, costeggiavo il marciapiede di palazzo Biscari a Catania. A un tratto si affaccia elegante, bellissimo il principe Ruggero Monca-da: ‘Leggo dai giornali che sei diventato comunista’. E io gli rispondo: ‘così pare’
Morale?
Lui mi sorride: “Benvenuto tra noi”. Mi sono ricordato quando Sciascia diceva: ‘Non c’è comunista siciliano che non provi un brivido di soddisfazione quando siede accanto a un titolato’.
Le confessiamo un’impressione.
Non vi trattenete.
Ci deve essere qualcosa di più.
Loro, i politicanti non ne sanno niente, ma pensavamo anche a un musical.
Titolo?
My fair Papi.
Vede, ci sembrava.
L’idea mi è venuta così: Come è stato raccontato Berlusconi? Hanno provato attraverso i romanzi, ma non c’è uno buono. Con l’ausilio delle sentenze: ma il quadro risulta asettico. Allora, ho pensato e ripensato.
E dove è arrivato?
A quel galantuomo fascista che è Tommaso Staiti di Cuddia. Staiti mi dice che da ragazzo sbarcava il lunario facendo le claque nei teatri di rivista. Poi inventa una battuta fulminante: ‘Tutto mi sarei immaginato fuorché vedere Carlo Dapporto presidente del Consiglio’. Allora ho immaginato il canovaccio.
Proceda.
Due amici ormai vecchi, destinati a un meraviglioso tramonto su un’isola caraibica.
Chi sono?
Uno è Don Verzé circondato da bimbi indigeni neri come la pece da curare amorevolmente, tra flebo, fasce e bende.
L’altro?
Mi stupisco di voi. L’altro è il cavaliere, sommerso da bellissime ragazze. E da lì, da questo contesto sognante, iniziare un racconto che corra verso l’happy end.
Sembra una canzone di Paolo Conte. SIndacato miliardari, Onda su onda.
Per le musiche, infatti, ho pensato a lui, un poeta. Per anni provò inutilmente a realizzare Razmataz. Il Musical lo fa impazzire.
Chi lo scrive il copione?
L’ho chiesto a Giuliano Ferrara e a lui l’idea è piaciuta. La regia l’ho offerta a Nanni Moretti. Ha il guizzo Nanni, fin da quando faceva recitare Minzolini. Ma non so se dirà sì. Comunque, a Catania o a Capo Horn si farà.
Perché ne è così certo?
La natura. Non siamo figli di Manzoni e Leopardi, ma di Garinei e Giovannini.
Il teatro tradizionale la annoia?
Il concetto è sempre uno: educarne uno per addormentarne cento. La vitalità è altrove. In questi anni ho cercato di trasformare la letteratura in spettacolo da palco. Ci siamo riusciti. Se usciremo di scena lo faremo come i cavalieri medievali. A testa alta, di sguincio, cavalcando lontano verso l’orizzonte.