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 2010  novembre 09 Martedì calendario

CRISI PILOTATA O RIMPASTO: ALLA FINE CONTANO I NUMERI

La politica, si sa, non è una scienza esatta. Poiché il diritto costituzionale ha l’ambizione di dettare regole cogenti alla politica, anche la sua precisione è prossima allo zero. E allora a che serve lambiccarsi il cervello sulle procedure della crisi che sta risucchiando il governo Berlusconi? Serve a misurare questo tempo di passaggio, dove le vecchie regole stentano a morire, mentre le nuove non sbucano mai fuori dalla testa di Giove. Nel frattempo le forze politiche usano la Costituzione come un supermercato: ciascuno sceglie la propria mercanzia giuridica, sicché nessun carrello della spesa è uguale all’altro.

Le prove? Un mese fa Berlusconi ha ottenuto un voto di fiducia dalle assemblee legislative, salvo poi ritrovarsi con un cappio al collo: ipocrisie da prima Repubblica. L’arbitro dei suoi destini è il presidente della Camera, che tuttavia sotto il doppiopetto blu indossa una camicia da capopartito: e questa è una novità inaugurata dalla seconda Repubblica (prima di Fini, è già successo con Casini e Bertinotti).

Il presidente Fini minaccia di ritirare la sua delegazione di partito dal governo: linguaggio da prima Repubblica, anche nella seconda però è rimasto in voga (fece altrettanto Follini nel 2005, mettendo in crisi un altro governo Berlusconi).

Intanto gruppi di peones saltano da un partito all’altro, ingrossando la rappresentanza parlamentare di Fli: qui lo scenario è da seconda Repubblica (nella prima a cambiare alleanze erano i partiti, non i singoli). Sempre Fini domanda a gran voce le dimissioni del presidente del Consiglio, dunque una crisi extraparlamentare, senza mozioni di sfiducia: nella prima Repubblica era una regola costantemente rispettata, anzi talvolta bastavano le dimissioni d’un ministro per travolgere l’intero gabinetto (Pella nel 1951, La Malfa nel 1974). Ma se il presidente della Camera chiede di scavalcare la Camera dal rituale della crisi, allora applica una nuova regola, né della prima Repubblica, né della seconda: magari sarà stata una regola in uso durante il regno dei Savoia, noi non ce ne rammentiamo.

E Berlusconi, come può venirne fuori sano e salvo? A occhio e croce le soluzioni sono due. O un rilancio del suo esecutivo senza crisi, confidando nell’appoggio esterno di Fli; o altrimenti una crisi conclamata. La prima ipotesi vanta un precedente nel febbraio 2007, quando il gabinetto Prodi venne bocciato in Senato da una risoluzione sulla politica estera. Il presidente del Consiglio rassegnò le proprie dimissioni al Quirinale, Napolitano lo rinviò alle Camere, Prodi scrisse un documento programmatico, e tutto si concluse a tarallucci e vino.

La seconda ipotesi esibisce a propria volta un doppio precedente, sempre a fermarsi all’esperienza della seconda Repubblica. Nel dicembre 1999 fu D’Alema a succedere a se stesso, imbarcando nuovi ministri e nuovi partiti nella sua coalizione di governo. Nell’aprile 2005 toccò invece a Berlusconi, dopo la batosta delle regionali (11 regioni su 13 al centrosinistra): dimissioni, crisi, reincarico al presidente del Consiglio uscente, qualche cambio di poltrona fra i ministri, e nacque il Berlusconi-ter.

C’è però una regola sempreverde, durante la prima Repubblica non meno che durante la seconda: la regola dei numeri. Nei tre casi appena ricordati il governo seppe conservare la propria maggioranza in Parlamento, questa volta è un po’ più dura. Anche se a uscire fuori dalla porta saranno soltanto due ministri, Ronchi e Urso. Perché non contano i voti in Consiglio dei ministri, contano i voti in Parlamento. E dunque è lì, sotto le forche caudine di Camera e Senato, che dovrà passare Berlusconi. O ci va con le sue gambe, o finirà per mandarcelo il capo dello Stato.