Vittorio Emanuele Parsi, La Stampa 9/11/2010, pagina 1, 9 novembre 2010
Rivincita sul voto - Partito con l’esplicito obiettivo di riuscire a frenare la «fuga di posti di lavoro americani in India», Obama ha scelto di fornire alla sua tutt’altro che scontata visita indiana (è il terzo Presidente Usa a visitare il Paese) un colpo d’ala politico
Rivincita sul voto - Partito con l’esplicito obiettivo di riuscire a frenare la «fuga di posti di lavoro americani in India», Obama ha scelto di fornire alla sua tutt’altro che scontata visita indiana (è il terzo Presidente Usa a visitare il Paese) un colpo d’ala politico. Con un’accelerazione rispetto alle sempre più continue aperture di credito americane nei confronti della «più popolosa democrazia del pianeta», il Presidente americano si è spinto a sostenere in maniera tanto esplicita e solenne, quanto priva di conseguenze effettive, le aspirazioni indiane a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La riforma del Consiglio, e dell’organizzazione nel suo complesso, giace impantanata da anni nella palude del Palazzo di Vetro, ed è improbabile che le cose possano cambiare a breve. Ma una così autorevole presa di posizione costituisce un’ottima premessa affinché il dialogo tra Washington e Delhi possa portare a qualche risultato spendibile dal Presidente anche e soprattutto sul fronte interno: cioè in termini di posti di lavoro e accordi commerciali. Sono ormai molti anni che Washington sta letteralmente «allevando» l’India come grande potenza, per farne un alleato strategico in grado di bilanciare le possibili aspirazioni egemoniche cinesi in Estremo Oriente. Non si tratta di un’opzione anticinese, ma piuttosto di una scelta a favore del mantenimento di quel multipolarismo asiatico di cui Washington è stata storicamente garante. E la cosa, al di là delle reazioni ufficiali e mediatiche, potrebbe in fondo non dispiacere a Pechino, che ha tutto l’interesse a rassicurare i vicini circa il carattere armonioso e non minaccioso della sua crescita. Proprio in omaggio a una simile strategia, il predecessore di Obama, liberò la vendita di componenti decisive per i reattori nucleari indiani, bloccata dal Congresso a seguito della violazione indiana del Trattato di Non Proliferazione Nucleare: un passo, quello, ben più denso di significati concreti, per un Paese sempre più affamato di energia, ma ancora incredibilmente legato a materie prime altamente inquinati e scarsamente efficienti come il carbone. Certo che sostenere la richiesta di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza per un Paese che ha violato apertamente il trattato di non proliferazione appare una scelta simbolicamente persino più audace dello sblocco di qualche turbina. Sarà piuttosto il Pakistan a cogliere nella decisione americana un ulteriore segnale del degrado delle relazioni bilaterali con Washington, dove l’insofferenza per un alleato ritenuto doppiogiochista e fellone nella lotta ai talebani è temperata solo dalla consapevolezza della sua insostituibilità. Più in generale, il mondo islamico non vedrà di buon occhio questo passo, che sarà letto come l’ennesima delusione seguita alle grandi aspettative suscitate dall’ormai lontano discorso del Cairo. Anche fuori degli States, il problema del gap tra le enormi aspettative suscitate e le modeste prestazioni fin qui realizzate appare perseguitare Obama, la cui politica estera nei prossimi due anni dovrà giocoforza essere sempre più attenta agli interessi strettamente americani e lontana da quell’afflato di leadership e responsabilità globali che oltreconfine gli aveva provocato tanta simpatia e tanto interesse. Inevitabilmente, anche sulla politica estera gli effetti delle disastrose elezioni di Midterm si faranno sentire, spingendo il presidente a privilegiare quelle regioni (e quegli interlocutori) ove, accanto a più tradizionali e dilazionati interessi strategici possano essere perseguiti anche più schietti e immediati interessi economici. Quindi più Asia meridionale e orientale e meno Medio Oriente: a iniziare da quel Levante (Israele, Palestina, Libano, Siria) dove l’America sta perdendo presa politica e non ha grandi interessi economici, o dove la militarizzazione dell’azione di politica estera (Iraq, Afghanistan) impone scelte sostanzialmente obbligate. Il risultato complessivo potrebbe essere apparentemente paradossale: ovvero che un presidente partito con convinzioni, aspirazioni e aspettative orientate a esercitare una leadership globale e insieme condivisa, potrebbe ritrovarsi (pena la sconfitta alle prossime elezioni) a svolgere un’azione concreta molto più serrata intorno all’interesse nazionale degli Stati Uniti. Non per colpa delle sue idee, si dirà, ma per via del ciclo economico e delle sue conseguenze politiche. Ma in fondo è né più né meno quanto accadde a George Bush (padre), che nonostante le idee (un nuovo ordine mondiale da costruire multilateralmente) e le azioni (il successo della Guerra del Golfo e della sua straordinaria coalizione arcobaleno) venne sconfitto per non aver saputo trovare le risposte giuste alla preoccupazioni economiche del suo elettorato domestico.