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 2010  novembre 07 Domenica calendario

Ecco i-Cub, il robot all’italiana (+ 5 domande) - All’ingresso dell’enorme complesso sulla collina di Bolzaneto c’è un cartello di benvenuto in 26 lingue

Ecco i-Cub, il robot all’italiana (+ 5 domande) - All’ingresso dell’enorme complesso sulla collina di Bolzaneto c’è un cartello di benvenuto in 26 lingue. Dove oggi c’è l’Istituto italiano di Tecnologia, avrebbe dovuto nascere un carcere. Il destino ha voluto che fosse sede dell’Agenzia delle Entrate di Genova. Di quelle scartoffie, dell’odor di burocrazia che si respirava, non è rimasto nulla. E’ rimasto lo Stato: l’Iit è un centro di ricerca pubblico. Come il Cnr, come qualunque altra Università. Non funziona però come una qualunque Università: qui non ci sono facoltà ma dipartimenti, si fa solo ricerca, il personale amministrativo è una frazione dei ricercatori. Non ci sono contratti a tempo indeterminato. Un angolo d’America in terra italiana che ad alcuni fa ancora storcere il naso. L’Iit nasce nel 2003 da un’intuizione di Vittorio Grilli, oggi direttore generale del Tesoro, un economista che ha insegnato a Yale. L’idea è semplice: creare un centro di eccellenza tecnologica in terra italiana. Per questo il governo gli garantisce un contributo ad hoc: 360 milioni fra il 2006 e il 2008, 100 all’anno a partire dal 2009. Non riceve finanziamenti nel 2007 per via dei dubbi del governo Prodi sulla qualità dell’investimento. Fatta la valutazione, nel 2008 la Finanziaria ripristina il finanziamento. Il primo centro di ricerca è dedicato alla robotica: è il 2006. L’Iit sconta l’antipatia della comunità scientifica italiana. Non gli perdona di ricevere un trattamento di favore. Il contributo è generoso, ma a Genova le cose non vanno come a Siena, dove l’Università è fallita: l’Iit accumula un avanzo di 250 milioni che ora ha deciso di depositare presso un conto infruttifero alla Banca d’Italia. Oggi all’Iit lavorano 811 persone divise in quattro aree: robotica, neuroscienze, nanotecnologie e farmaceutica. Ci sono 546 ricercatori di 32 Paesi, 158 studenti di dottorato, 34 tecnici, 10 dirigenti, 63 dipendenti amministrativi. A Genova ci sono 570 persone, le altre lavorano nei centri che Iit ha aperto in alcune università: Pisa, Napoli, Lecce, con i politecnici di Milano e Torino, Trento e Parma. «L’età media è trent’anni. Gli italiani sono circa un terzo, un terzo stranieri, il resto sono italiani che hanno lavorato all’estero», spiega il direttore scientifico Roberto Cingolani. Il rapporto fra ricercatori e personale amministrativo è di 8 a 2. Al Cnr per ogni ricercatore c’è almeno un dipendente amministrativo. Il budget di quest’anno dell’Iit non prevede avanzi di gestione: gli investimenti valgono 32 milioni di euro. Sei milioni sono destinati a progetti nelle Università affiliate, altri sei milioni è il costo del personale. Ai dipartimenti sono riservati in tutto 32 milioni di euro su cento. L’ultimo bilancio del Cnr dice che su quasi un miliardo di budget, alla ricerca siano stati destinati 152 milioni. Un giovane ricercatore all’Iit guadagna 35mila euro l’anno, un «senior scientist» arriva a sessantamila. I contratti sono quinquennali, il personale è scelto con bandi sulle riviste internazionali. «Le valutazioni sono fatte annualmente dal comitato tecnico e scientifico dell’Iit», spiega Cingolani. «Se le cose vanno bene si rifinanzia il dipartimento, altrimenti si rivedono i piani». A giorni, racconta Cingolani, sarà annunciata la chiusura di uno dei dieci dipartimenti. «Non possiamo dire quale, capirà la delicatezza del tema». Cingolani è comunque soddisfatto: «Abbiamo all’attivo duemila pubblicazioni, 55 brevetti, 55 progetti finanziati dalla Comunità europea per 15 milioni di euro di investimenti. L’i-Cub, il robot realizzato dal dipartimento di robotica, è diventato una piattaforma europea. Contiamo a breve di partecipare allo spin-off di due progetti, uno nel settore della diagnostica, un altro frutto di una ricerca in life science». Eppure Cingolani sfata il mito che vorrebbe Università come l’Iit finanziata soprattutto da contributi privati: «L’Mit di Boston riceve dai privati il 10% dei suoi finanziamenti. E’ vero che ottiene pochissimi contributi diretti dallo Stato, ma è lo Stato, attraverso le agenzie pubbliche, a bandire i finanziamenti. Noi oggi raccogliamo con i bandi il 10% delle nostre risorse. Contiamo di arrivare al 20%. Abbiamo scelto di concentrare le nostre energie su alcune aree specifiche di ricerca, e di rinunciare alla didattica. Credo che il futuro dell’Università dovrebbe passare da qui: concentrare le risorse su obiettivi specifici». «La comunità scientifica italiana comincia ad accettarci», spiega il direttore generale Simone Ungaro. Cingolani racconta di aver chiesto ufficialmente l’inserimento nell’albo del Civr, l’ente di valutazione delle università. «L’ho ottenuto, ora attendo i passi ulteriori». Ma, a termine di legge, lo Stato non gli riconosce ancora i dottorati di ricerca: i dottorandi esistono solo attraverso le altre Università. Per ricevere quel sì, ci vuole l’assenso della conferenza dei rettori. *** Ordinario di Bioingegneria all’Università di Genova, ha lavorato alla Normale di Pisa, al Cnr, all’Harvard Medical School e all’Mit di Boston. Giulio Sandini è all’Iit dal 2006. «Abbiamo aperto il laboratorio di robotica fra il rumore dei martelli pneumatici». E’ considerato il «papà» di i-Cub, il robot bambino icona del centro di ricerca. E’ convinto che «nel giro di dieci anni» si potranno acquistare i primi robot in grado di interagire con l’uomo. «Ad esempio per l’assistenza agli anziani». Professor Sandini, l’Iit è stato a lungo sotto il tiro della comunità scientifica per via del finanziamento ad hoc che il governo gli concede annualmente. Cosa risponde ai critici? «Dico a tutti di venire a vedere cosa è oggi l’Iit. Mettere in piedi un laboratorio e renderlo competitivo è un lavoro lungo e costoso. Sono passati quattro anni, e oggi possiamo dire che le cose vanno bene». Ci parli del suo dipartimento. «Oggi possiamo contare su 13 finanziamenti europei vinti su base competitiva. Abbiamo più di 300 pubblicazioni su riviste internazionali, abbiamo realizzato venti i-Cub. Circa la metà è stata inviata nel mondo: dall’Imperial College all’università americana di Urbana. E poi Plymouth, Barcellona, Parigi V, Ankara. Un esemplare è anche al Cnr. Lunedì sarò a San Francisco per la creazione di una rete mondiale di laboratori». Come viene valutato il vostro lavoro? «Dobbiamo sottostare a valutazioni mensili sul budget, e una annuale sulla qualità della ricerca». Si sente un privilegiato? «Certo che lo siamo. Ma i controlli cui dobbiamo sottostare sono molto severi. E’ giusto così: ciascuno qui deve fare il suo mestiere. Ai colleghi che vengono a trovarmi rispondo sempre che il problema non è come veniamo trattati qui, ma il funzionamento del sistema della ricerca italiana». Cosa manca all’Università? «Più qualità organizzativa. E fondi».