Marco Sodano, La Stampa 7/11/2010, pagina 10, 7 novembre 2010
Dollaro e yuan Una battaglia per sopravvivere (+tabella) - Sarà un vertice difficile - forse il più difficile - il prossimo G20 che si apre in settimana a Seul
Dollaro e yuan Una battaglia per sopravvivere (+tabella) - Sarà un vertice difficile - forse il più difficile - il prossimo G20 che si apre in settimana a Seul. Di rado, garantiscono gli esperti, s’era arrivati alla vigilia in un’atmosfera così tesa. Non si vedono le premesse di un’intesa che metta fine alla guerra delle valute, o almeno la raffreddi. Avversari principali Stati Uniti e Cina, in mezzo l’Europa con le sue belle gatte da pelare: nella finanza globalizzata il battito d’ali della farfalla nell’Atlantico diventa uno tsunami nel Pacifico e viceversa. Gli Stati Uniti attaccano Pechino che, a loro modo di vedere, tiene artificialmente basso il valore della sua moneta. Uno yuan ai minimi favorisce le imprese cinesi, forti esportatrici verso gli stessi Usa: in America i loro prodotti costano poco e si vendono molto, a maggior ragione in periodo di crisi. All’opposto, quel poco che gli americani esportano in Cina con il dollaro forte costa caro e si vende di meno. Di fronte alla crisi, negli ultimi due anni, gli States hanno messo mano al portafoglio: hanno portato il costo del denaro quasi a zero, acquistato titoli tossici, salvato imprese. La scorsa settimana la banca centrale (la Federal Reserve) ha annunciato un ulteriore piano da 600 miliardi di dollari, più trecento di reinvestimenti. Questa volta comprerà direttamente i titoli di Stato, anche perché esaurite le mosse precedenti non le restavano alternative. E nonostante il primo giro di misure abbia funzionato solo fino a un certo punto: è vero che ha fatto ripartire la domanda, ma è altrettanto vero che è ripartita soprattutto quella di prodotti importati. E infatti fino ad oggi è mancato l’effetto più desiderato delle cosiddette politiche espansive: non si è ridotta la disoccupazione perché la produzione è rimasta all’estero. Con l’acquisto di titoli di Stato - criticatissimo in Asia - la Fed vuole andare oltre. Crescendo la domanda di Tbond, dovrebbero scendere gli interessi che il Tesoro Usa paga sul suo debito. Flettendo questi, a cascata, dovrebbero poi flettere le obbligazioni private, e anche le imprese avrebbero un debito meno oneroso. Infine ci sono le banche, che di fronte a interessi minimi potrebbero decidere che preferiscono prestare i soldi alle famiglie e alle imprese piuttosto che allo Stato. Il risultato ideale dell’equazione sarebbe un impulso agli investimenti e ai consumi. Che funzionerebbe a patto che si consumino merci americane. Qui si inserisce il secondo tema caro a Geithner: gli squilibri commerciali. La richiesta americana è che nella bilancia degli scambi tra due Paesi importazioni ed esportazioni siano tenute in equilibrio. «Tra le une e le altre non deve esserci - dice il segretario del Tesoro - una differenza superiore al 4%». Se volete venderci le vostre merci, dovete comperare le nostre. Perché resta possibile un altro esito: la ripresa arriva, ma si concentra per la seconda volta sulle merci prodotte dai Paesi emergenti. Con gli interessi sul debito Usa bassi la speculazione potrebbe essere tentata di investire nei titoli degli stessi emergenti: le loro monete finirebbero per rivalutarsi, e i capitali in arrivo con gli investitori esteri creerebbero una montagna di liquidità. Sono i presupposti di una bolla finanziaria analoga a quella esplosa tra 2007 e 2008. A quel punto anche altri emergenti, dal Brasile alla Corea del Sud, comincerebbero a far pressione sulla Cina perché apprezzi lo yuan, riduca il volume delle esportazioni e aumenti quello delle importazioni: e anche questo potrebbe essere un obiettivo buono per gli Stati Uniti, conquistare alleati preziosi. Il nodo sta nel fatto che le imprese cinesi, per colonizzare i mercati occidentali con prodotti a basso costo e alimentare la crescita della loro economia-razzo lavorano con margini di guadagno risicati. Uno yuan più forte rischia di azzerarglieli con la conseguenza immediata di aumentare la disoccupazione, mentre un rincaro dei prezzi cinesi sarebbe disastroso in un Paese che ha il secondo Pil del mondo in valori assoluti, ma scende sotto il centesimo posto se si guarda alla ricchezza pro capite (nella classifica l’Italia è 37ª). Basta guardare il Big Mac index, elaborato dal settimanale The Economist: prendendo a riferimento il prezzo americano del panino più globalizzato del pianeta, lo yuan è sottovalutato del 40%. Un cinese lo paga due dollari e 18 cent, un americano 3,71. Il Pil pro capite cinese è 6500 dollari, quello americano 46.400. Finirebbe con la banca centrale di Pechino costretta a iniettare liquidità nei fast food a suon di acquisti in hamburger.