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 2010  novembre 08 Lunedì calendario

Noi, diventati grandi con “Harry Potter” - Chiuso. Finito. Archiviato. Il gioco più lungo del mondo non esiste più

Noi, diventati grandi con “Harry Potter” - Chiuso. Finito. Archiviato. Il gioco più lungo del mondo non esiste più. E’ durato dieci anni e ha portato nelle tasche di Daniel Radcliffe 42 milioni di sterline, in quelle di Emma Watson 22 e altri 20 li ha consegnati a Rupert Grint, il ragazzino più normale della terra, diventato l’angelo rosso di questa irripetibile trinità pagana. Lui, il mago destinato a sconfiggere il male - Hitler, Stalin, il diavolo, la cattiveria quotidiana, perché è questo che aveva in testa la Rowling nella sua strana fiaba che forse non è mai stata per bambini - lei, determinata ribelle, capace di battere i pregiudizi, correndo a cavallo tra il mondo dei babbani e quello della magia. E infine l’amico fedele, goffo, apparentemente inadeguato, eppure decisivo. Si è fregato un pezzo della loro infanzia questa storia infinita. Gliel’ha ripagata minuto per minuto, mentre la giostra produceva un giro d’affari da 5 miliardi di dollari e condizionava l’immaginario di una generazione. Avevano dieci anni quando hanno cominciato. Non c’è più stato altro. Che differenza è passata tra la loro vita e quella di Harry Potter, Hermione Granger e Ron Weasley? «Nessuna». Nell’intervista al Magazine del Sunday Times, Emma Watson ha i capelli corti e si fa fotografare con le gambe raccolte su un divano bianco da diva. E’ bellissima. Gli occhi soprattutto. Sottile. Un corpo ancora inespresso. «Dopo l’ultimo ciak abbiamo organizzato una festa. A un certo punto io, Daniel e Rupert ci siamo abbracciati forte. Siamo scoppiati a piangere. Un fiume che ha rotto gli argini». Nostalgia. Ma anche un improvviso senso di libertà: che cosa siamo diventati veramente? Giovedì, al cinema Odeon di Leicester Square, alle otto di sera, esce la prima delle due parti di Harry Potter e i doni della morte e i tre bambini milionari si ritrovano per l’ultima volta sullo stesso tappeto rosso. «Le persone pensano che gli attori ragazzini siano destinati a diventare dei pazzi eccentrici. Beh per noi non è andata così». Rupert Grint è quello che è cambiato di meno. Ha la stessa faccia di dieci anni fa. Solo più alto. E’ ricco, ma invece di una Ferrari si è comprato un Caravan. Ha smesso di studiare, dice che non ce la faceva a fare le due cose assieme. «I miei genitori hanno lasciato il lavoro per essere al mio fianco. Ammetto che l’idea di emanciparmi mi fa un po’ paura. In fondo ho passato tutti questi anni sul set. Il mondo è più grande di così. Emma e Daniel non sono amici, sono fratelli. Forse adesso vorrei una ragazza vera». Vera. Lo dice come se fosse una parola con cui ha ancora poca confidenza. I Leavensden Studios sono dei capannoni sterminati a nord est di Londra. Una ex fabbrica della Rolls Royce. Il mondo di Harry Potter è rinchiuso lì. Presto sarà un museo. Sono enormi e gelidi. «Casa nostra», li chiama Daniel Radcliffe. «Il gulag», l’hanno ribattezzato i taxisti del posto. Avvicinarlo era quasi impossibile quando si girava. Una fortezza inespugnabile, circondata da guardie armate. Solo Emma dei tre non si era portata appresso la famiglia. E solo lei ha continuato la scuola. L’unica che si è iscritta all’Università. L’avevano presa a Cambridge. Ha scelto gli Stati Uniti. «I miei genitori hanno continuato a fare gli avvocati. Mi sono mancati. Ma la cosa mi ha aiutato a crescere. Da qualche parte sono felice di cominciare un altro cammino». Ha i modi delle donne forti. David Heyman, che ha prodotto i film, spiega che non lo sa nemmeno lui se a questi tre bambini hanno rubato l’infanzia. Dice che hanno fatto di tutto per stare al loro fianco e che Daniel gli è sempre sembrato speciale. «Era qui ogni giorno. Ininterrottamente. In dieci anni credo che si sia ammalato dieci minuti. Se considerate che ogni film è durato mediamente trenta settimane davvero è un arco di tempo formdabile». Daniel, allora. Senza la brillantezza di Emma ma cocciuto come un mulo. Un perfezionista. Uno che ha imparato dai giganti del cinema che gli sono stati di fianco: da Ian McKellen a Helena Bonham Carter. «E’ strano pensare che sia tutto finito. Ma so che i momenti passati recitando mi hannno ripagato delle fatiche e delle rinunce. Non siamo stati bambini come gli altri, è vero. Ma eravamo noi. Ed è stato meraviglioso». Hanno ballato a lungo. E la musica era quella della loro vita. Oggi è difficile pensare ad altro. Resta la fotografia di un’ infanzia speciale. Come se questa volta il successo avesse giocato una parte anonima nella grande dolcezza delle cose.