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 2010  novembre 07 Domenica calendario

FMI, CINA E INDIA PRENDONO IL COMANDO

(cronaca e analisi) -

I paesi emergenti entrano nella stanza dei bottoni del Fondo Monetario internazionale: cambia volto l´istituzione di Bretton Woods voluta nel 1945 per «rispondere alla nuova realtà dell´economia mondiale». «Un accordo storico», commenta il numero uno del Fmi, il francese Dominique Strauss-Kahn, al termine del board, riunito per ratificare l´accordo politico di Gyeongju, in Corea, raggiunto dai ministri del G20 giusto lo scorso ottobre.
«E´ il maggior cambiamento di governance nei 65 anni di storia del Fondo». C´è voluto un quinquennio di vane discussioni per arrivare ad una intesa che desse più rappresentatività e dunque più peso politico alle economie emergenti, oggi l´unica vera «locomotiva» della fragilissima ripresa mondiale. Cinque anni durante i quali, per l´economia, è accaduto di tutto: lo sconquasso dei mutui subprime, la crisi, la debacle dell´occupazione e non ultima la «guerra delle monete» Usa-Cina. Ora, giusto alla vigilia del G20 di Seul tra i capi di stato e di governo, ecco che arriva anche il via libera degli «azionisti», riuniti nel quartier generale di Washington. Traduce in concreto lo spirito di quell´intesa: va bene chiedere ai nuovi soci di fare la loro parte, ma bisogna pure coinvolgerli nelle responsabilità decisionali.
Anche se ci vorranno altri due anni prima che la riforma sia definitivamente operativa, già adesso si sa come cambiano gli equilibri. La Cina, per esempio, da sesto azionista del Fmi si piazza al terzo posto, dopo Usa e Giappone, scavalcando Germania, Francia e Gran Bretagna. E ancora: il consiglio resta di 24 «seggi» ma l´Europa deve rinunciare a due delle 8 poltrone che occupa (9 se si include la Russia) per fare spazio ai nuovi arrivati: il ministro Giulio Tremonti ha già assicurato che l´Italia si terrà la sua. E infatti il Fmi comunica ora che, nella top ten del domani e dunque tra i soci di maggior peso, ci saranno Usa, Giappone, le quattro principali economie europee (Germania Francia, Regno Unito, Italia), più i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina): per brasiliani e indiani, la posizione è una novità, un avanzamento. Inoltre, si sposta il 6% del potere di voto dal blocco dei paesi avanzati inclusi anche i produttori di petrolio, a quelli emergenti: è un tetto superiore alle attese. Il capitale del Fmi raddoppia fino a 755,7 miliardi di dollari. Soppressi anche i privilegi del G5, dove siedono Usa, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito: il diritto statutario a un posto nel bord non c´è più. Viene invece «protetto» il potere di voto dei più poveri.
Le rinunce europee: uno scoglio che ha bloccato il negoziato per quasi due anni. Strauss-Kahn per mesi ha fatto la spola nelle capitali del Vecchio Continente per cercare una mediazione. Finché a sorpresa a Gyengju, dopo un delicato lavorio diplomatico, è arrivato l´annuncio. E dunque: i paesi Ue hanno tempo fino all´ottobre del 2012 - due anni, appunto - per decidere come tagliare i seggi. Il ministro belga Dieder Reynders, presidente di turno dell´Ecofin, presenterà entro l´anno una proposta di redistribuzione dei posti, indicando già una strada: Belgio e Olanda, che finora avevano una sedia a testa, potrebbero «ruotare», «alternarsi»; altri potrebbero seguire l´esempio.
La riforma deve essere approvata da tutti gli stati membri del Fmi, con l´85% dei voti favorevoli. In alcuni paesi sarà necessario un placet per via legislativa: è il caso degli Stati Uniti. Strauss-Kahn non ritiene che la Camera Usa, ora in mano ai repubblicani, ritardi l´approvazione.
Elena Polidori

«Storica decisione» la definisce Dominique Strauss-Kahn, un socialista francese finito a dirigere l´istituzione che per 65 anni fu la guardiana di un «ordine americano» nell´economia mondiale. Il Fondo monetario internazionale cambia pelle. Al suo interno aumenta di colpo il potere dei paesi emergenti. L´Europa viene rimpicciolita, gli Stati Uniti perdono il diritto di veto. Uno spostamento senza precedenti investe i rapporti di forze in seno a quell´organismo, che spesso ha avuto potere di vita e di morte verso gli Stati esposti a bancarotte sovrane. E´ una rivoluzione avvenuta senza colpo ferire: la conseguenza ineluttabile del fatto che le economie emergenti ormai hanno una ricchezza aggregata superiore ai paesi di vecchia industrializzazione; quindi le loro «quote di azioni» salgono in seno al Fmi, dove ciascuno pesa per quanto può contribuire. Non altrettanto indolore è la «guerra delle monete». Proprio mentre il Fmi ratifica il nuovo ordine delle gerarchie mondiali, le potenze emergenti istruiscono un processo all´America. E´ sotto accusa la sua politica monetaria lassista: un disperato tentativo di rilanciare la crescita, che può seminare inflazione e bolle speculative nel resto del mondo.
La nuova classifica dei potenti in seno al Fondo vede la Cina salire al terzo posto, Brasile e Russia nella Top Ten. Una gerarchia che sarebbe sembrata pura fantascienza quando nacque il Fmi: era il 1944, nella conferenza di Bretton Woods. Non era neppure finita la seconda guerra mondiale e già l´America di Franklin Roosevelt progettava l´architettura di un nuovo ordine post-bellico. Con la consulenza dell´economista inglese John Maynard Keynes, il Fondo divenne l´arbitro dei rapporti tra le monete. Con al centro del sistema solare il dollaro. La leadership americana era incontrastata. Per molti decenni il Fondo fu il guardiano del «pensiero unico». A ogni grande crisi finanziaria - in America latina negli anni Ottanta, in Russia e in Asia negli anni Novanta - i tecnocrati del Fmi accorrevano a spegnere il focolaio d´instabilità. Offrivano finanziamenti, in cambio di ricette severe: risanamento dei deficit pubblici, austerità, riforme strutturali. Era il «consenso di Washington», così detto anche perché la sede del Fondo è a Washington, a pochi isolati dalla Casa Bianca. Ma il Fmi è una società per azioni, dove ciascuno contribuisce a finanziare gli interventi d´emergenza. Ora che la ricchezza si sposta verso Oriente, insieme con la virtù nella spesa - i dragoni asiatici, loro sì, rispettano i criteri di Maastricht su deficit e debito - anche nel Fmi «gli altri» contano di più. Con il beneplacito degli americani: perché a breve termine chi fa le spese del riassetto sono gli europei.
Ma i nuovi equilibri dentro il Fondo vengono ratificati in un momento in cui l´America stessa è cinta d´assedio. La Cina ha respinto con toni beffardi la proposta americana di concordare (al prossimo G20 di Seul) un limite del 4% sugli attivi commerciali o i deficit delle nazioni. «Vogliono tornare ai tempi delle economie pianificate», è stato il sublime commento di Cui Tiankai, viceministro degli Esteri (comunista) della Repubblica Popolare. E così il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner ha subito smentito la proposta.
Come dire: se un paese ha un forte avanzo o disavanzo nel commercio estero, è il risultato dell´economia di mercato. In realtà non è del tutto esatto. L´attivo cinese deriva anche da sussidi di Stato e credito agevolato alle imprese esportatrici, nonché da una parità di cambio fissata dirigisticamente a Pechino. E´ vero però che gli Stati Uniti sono strutturalmente in deficit da decenni: e prima della Cina davano la colpa al Giappone o alla Germania.
L´ultima mossa della banca centrale americana è stata accolta da un coro di critiche - e perfino minacce - senza precedenti. Cos´è successo? Mercoledì scorso, appena chiuse le urne delle elezioni di mid-term, la Federal Reserve ha lanciato l´operazione «quantitative easing 2», abbreviata Qe2 nel gergo degli esperti.
E´ la ripresa di acquisti di titoli del debito pubblico americano effettuati dalla banca centrale, lo stesso tipo di operazioni che avvennero dal dicembre 2008 in funzione anti-recessione. Comprando titoli di Stato la banca centrale ne fa aumentare il prezzo, quindi calare i rendimenti. Il risultato finale è una ulteriore riduzione dei tassi a lungo termine, che si spera benefica per rilanciare gli investimenti. Ma l´effetto collaterale di questa politica è lo stampar moneta (almeno 600 miliardi in otto mesi). E indebolire il dollaro.
«L´ultima serie di svalutazioni selvagge finì con la seconda guerra mondiale» ammonisce la neopresidente del Brasile, Dilma Roussef. Il suo ministro del Commercio estero minaccia «rappresaglie». Dal Sudafrica alla Thailandia è un coro: «L´America distrugge lo spirito di cooperazione, crea liquidità che finirà sui nostri mercati aumentando inflazione e speculazione». Un alto esponente della Fed, Charles Plosser che è il governatore di Philadelphia, riflette che «ci vorranno 50 anni prima di capire davvero quel che accadde nella grande crisi del 2008-2009, e se la Fed fece le mosse giuste». Non occorrono 50 anni, invece, per misurare l´accelerazione improvvisa nell´ascesa dei paesi emergenti, e nell´aggressività con cui reagiscono alle mosse americane.
Federico Rampini