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 2010  novembre 07 Domenica calendario

PRIMO PASSO: ABITUARSI ALLE BLATTE - A

Mosca, a Mosca! Con tre compagne dell’Università di Roma e una borsa di studio. Il 16 settembre 1967 ci insediamo nel convitto dell’Università statale di Mosca (Mgu, pronuncia: Emmgheù, con lugubre eco da upupa foscoliana), sulle Colline Lenin: il più alto dei sette autarchici grattacieli – più esattamente incroci fra gigantesche torte nuziali e piramidi azteche – voluti da Stalin, «il più grande architetto di tutti i popoli e paesi», come orgogliosa risposta agli skyscrapers americani.

«Empire sovietico» (Roma antica e antica Russia, un tocco di gotico), l’Emmgheù occupa centosessantasette ettari nel luogo più alto di Mosca, lì dove anche Napoleone si soffermò per ammirare la città che credeva definitivamente sua. Quarantamila tonnellate di cemento armato, centosettantacinque milioni di mattoni, duecentottantamila metri quadri di ceramica; nessuno è mai riuscito a contare le colonne, esterne e interne, funzionali o solo ornamentali. I ventiquattro piani dei quattro torrioni laterali ospitano i pensionati, come le più tozze ali di raccordo con la torre centrale (duecentotrentasei metri, trentasei piani) sormontata da una guglia (cinquanta metri) su cui campeggia una stella (dodici tonnellate) dai riflessi d’oro nell’abbraccio di due colossali spighe. Il «Tempio della scienza» possiede l’orologio, il barometro e il termometro più grandi del mondo; centoundici fra ascensori e montacarichi possono scarrozzare su e giù più di millecinquecento persone contemporaneamente. Per visitarne i cinquantamila locali bisognerebbe percorrere a piedi centocinquantaquattro chilometri... L’Emmgheù, calcolai, poteva contenere metà della mia nativa Brindisi.

Quattro ingressi, identiche edicole, identici chioschi (arance cubane, pomodori bulgari, avannotti di aringhe baltiche eccetera), distributori di acqua gasata, baracchini, botteghini, salottini all’estremità dei lunghi corridoi... Se scendendo dall’autobus che circumnavigava l’Emmgheù sbagliavo fermata (quattro, identiche), e di conseguenza ingresso, mi rendevo conto dell’errore solo trovando persone sconosciute in quella che credevo la mia stanza. E me ne rendevo conto solo perché la stanza (identici il letto, l’armadio, il tavolo) avrebbe dovuto essere vuota, dal momento che stavo rientrando. O forse non ero affatto uscita, ed ero io quella ragazza etiope (nigeriana, tedesca, tagika) seduta al tavolo, o distesa sul letto le cui gambe terminavano in ciotole piene di acqua o alcol destinati a respingere i reiterati attacchi di ditteri, emitteri, psocotteri...

Telefonai per la prima volta in Italia dal Telegrafo Centrale, in via Gor’kij. Tre minuti prepagati, disturbatissima comunicazione di cui certamente qualcuno non perdeva una parola. «Mamma» urlai, «mandami il Ddt!», col pathos dell’Osvaldo ibseniano quando implora: «Mamma, dammi il sole!». Concitata, fissando le lancette del l’orologio: «Sì, sto benissimo... No, non fa freddo... Mangio, non preoccuparti... Non dimenticare il Ddt! Liquido, in polvere, come vuoi!... Fa male?... E dove le trovo le foglie di lattuga?... Sta per scadere il tempo... Mandami quello che vuoi, purché mi liberi dagli scarafaggi».

Sorpreso dalla luce, dal rumore di passi, l’arrogante tarakan rossiccio o «delle isbe» si immobilizza continuando a muovere i lunghi baffi-antenne con aria di sfida. Linneo lo battezzò blattella germanica, e in Russia lo chiamano infatti prusak, «prussiano», ma per i tedeschi è «russo»; di sicuro arrivò dall’Asia nel XVIII secolo. Anche la dispettosa tassonomia sembra voler confondere e disorientare chi si ostinasse a sciogliere il fatale dilemma: la Russia è Oriente od Occidente? Poter tornare nella Tula di Leskov, dai suoi mastri-artigiani, dal virtuoso che ferrò le zampe di una pulce di acciaio, chiedergli un minuscolo monumento al tarakano fulvo... Quando vinci la paura e il ribrezzo, quando dopo averlo incontrato riesci a dormire senza gli inquieti sogni premonitori di Gregor Samsa, ce l’hai fatta, sei di casa in Russia.