Michele Ainis, Il Sole 24 Ore 7/11/2010, 7 novembre 2010
URNE SENZA FUCILI CONQUISTA LUNGA
Facciamo parlare i numeri, le cifre. Durante l’ultima fase del colonialismo (1946-1959), ogni anno divampavano nel mondo 4 guerre e 11 conflitti minori. Trent’anni dopo (all’alba degli anni Novanta) le guerre erano diventate 17, i conflitti su scala più ridotta 35. Dopo di che la curva di questa mattanza collettiva inizia a scendere: 5 guerre e 27 focolai di guerra l’anno. Contemporaneamente la democrazia guadagna spazio nei cinque continenti, ma soprattutto in Africa, tra i paesi dell’ultimo miliardo. Cadono una per una feroci dittature, in Nigeria come in Sudan, nel Burundi come nella Sierra Leone. Il rito elettorale si diffonde, e non soltanto in Africa: per esempio in Indonesia o in Iraq, senza dire della Russia democratica subentrata al l’Unione Sovietica.
Significa che abitiamo un mondo più pacifico e sicuro? Significa che il successo della democrazia ha estirpato dal mondo la violenza? È l’opinione più diffusa: se la gente va alle urne non abbraccia il fucile. Ma una ricerca di Paul Collier (Guerre, armi e democrazia, Laterza) ribalta questa convinzione. Esperto d’economia e sviluppo, docente ed ex consulente del governo Blair, Collier ha misurato la violenza politica negli Stati africani, contando 357 colpi di Stato dal 1945 in poi, oltre a una catena interminabile di guerre civili, disordini di piazza, repressioni in massa delle opposizioni. Questa scia di sangue non s’interrompe affatto con l’avvento delle democrazie, anzi il più delle volte cresce mentre crescono le occasioni elettorali. Esemplare il caso della Costa d’Avorio: finché al comando c’era un dittatore (Félix Houphouët-Boigny), la sua capitale di fatto, Abidjan, veniva considerata la Parigi d’Africa; ma da quando gli ivoriani hanno cominciato a votare si sono succeduti due golpe militari, insieme a crisi economiche, ruberie di Stato, corse agli armamenti.
Da qui la triplice conclusione di Collier: non è vero che le elezioni mettano la sordina alla violenza, almeno in Africa è vero casomai l’opposto. Non è vero che il rito elettorale celebri ovunque una messa democratica, sempre l’Africa espone tutto un repertorio d’elezioni truccate, tribunali corrotti, diritti di carta. Infine non è vero che il tabù della guerra esterna abbia posto fine agli stermini, perché le democrazie africane hanno riversato questa energia demolitrice al loro interno, convertendola in guerra civile. Fatti loro? Non proprio, dato che nella maggioranza dei casi siamo stati noi occidentali a imporre al Terzo mondo un sistema democratico, in cambio di aiuti umanitari. Sicché il loro fallimento è pure il nostro, ci riguarda, ci tocca da vicino. E a sua volta ci impartisce una triplice lezione.
Primo: senza un adeguato sviluppo economico e sociale, la democrazia arreca più danni che vantaggi. Collier fissa questa soglia in un reddito pro capite di almeno 7 dollari al giorno, ma non è importante domandarsi quanto la sua stima sia attendibile. È più importante ricordarsi che nessuna democrazia può prosperare senza una robusta classe media che ne sorregga il peso. Significa che l’impoverimento della popolazione può mettere in crisi anche le democrazie più collaudate, incoraggiando pulsioni autoritarie, innescando la ricerca salvifica del Capo che apra il Mar Rosso in due come Mosè. In Italia ne scorgiamo già qualche segnale.
Secondo: ogni popolo ha i suoi tempi, il suo ritmo di sviluppo. Noi europei ci abbiamo messo all’incirca due millenni per approdare sulle rive della democrazia, non possiamo pretendere che questo salto storico altri lo facciano in un giorno. Perché in caso contrario la cravatta democratica renderà i loro paesi più ingestibili e violenti, come dimostra l’esperienza africana. E perché in ultimo ogni popolo deve trovare in sé medesimo le energie per liberarsi dai propri tiranni, altrimenti diventerà colono del suo liberatore. Insomma meno superbia, meno imperialismo culturale. Tanto alla prova dei fatti serve a poco.
Terzo: la festa democratica non dura un solo giorno, quello delle elezioni. Prima, durante e dopo devono agire i meccanismi dello Stato di diritto, gli organi di garanzia, l’informazione. Altrimenti le elezioni diventano una farsa, un modo per santificare il dittatore. Per neutralizzare questo rischio è decisiva, in ultimo, la società civile, la sua voglia d’opporsi a derive autoritarie. Insomma la democrazia reclama cittadini occhiuti, che non si sveglino solo durante un’elezione. Vale per l’Africa, vale per l’Italia.