EMANUELA AUDISIO, la Repubblica 7/11/2010, 7 novembre 2010
GIACOMELLI, SCATTI SOLO PER ME - SENIGALLIA
Se ne andò alle tre di notte, dieci anni fa. Il 25 novembre, di un anno che non voleva nominare. Lo avevano operato d´urgenza a gennaio, i medici non avevano dato speranze. Tumore. Simone, il figlio, ricorda: «Papà uscì dalla rianimazione e mi chiese di portare la mia macchina fotografica. La mia? Sì, non voleva la sua. Scese dal letto, me la impostò, e me la restituì, dicendo di non toccare niente, neanche il vuoto. Poi si sistemò accanto alla finestra e mi disse: scatta». Così è nato Questo ricordo lo vorrei ricordare. Vorrei, appunto, non voglio. L´umiltà dei desideri, di chi ringrazia per il niente, una fetta di ciambellone da dividere per cena. «Quello che ho avuto di bello dalla vita sono la povertà e le botte che mi ha dato mia madre». Già, lividi veri. Anche se la madre gli confessò che poi andava a piangere al gabinetto. Mario Giacomelli se non aveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapevano raccontare. E riconoscere la guerra in tempi di pace. I segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo. La vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo.
Ora la sua città lo ricorda con una mostra, I piccoli inediti. Dieci versi in dieci fotografie, dal 14 novembre al 14 dicembre, alla Galleria Portfolio di Senigallia, a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri, con presentazione di Alfio Albani. Non solo i primi clic, ma anche le parole. Perché a Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. «Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente». Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva il ritmo da Vitelloni, anche se le onde dell´Adriatico erano le stesse, piuttosto come Pasolini si lamentava di una perdita. Anche se le lucciole in collina resistevano. «La campagna è cambiata. È diversa, adesso è una terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina, fa tutto. Non c´è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c´è più gioia in chi lavora, in nessuno», dice a Giorgio G. Neri. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole dietro le serie.
Questi inediti, questi provini, scelti tra un centinaio, erano negli scatoloni nella soffitta di casa, dove lui stampava. Non robaccia, non scarti, perché come dice Simone: «Papà non pubblicava quello che amava, lo teneva per sé, aveva paura di non essere capito, nel ´63 voleva addirittura smettere, era rabbioso con il suo lavoro, di notte rompeva, strappava le foto, le buttava in un cesto. Io da bambino gli facevo da modello, anzi facevo l´ombra, una figura in movimento, ma non riuscivo a stare serio, e lui si arrabbiava. Finché nell´83 esce il libro Il Gabbiano Jonathan Livingston, e lui mi coinvolge, mi chiede: cosa ne pensi? Inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cade nella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sempre allungato, riesce a salvarsi, ma la puzza gli resterà addosso per una settimana. La poesia era la sua spalla creativa, odiava tutto quello che è didascalia, la Cavallina Storna con l´immagine del cavallo che passa, aveva una menta astratta, vedeva le macchie, i segni».
Li vede da subito: il padre muore che lui ha nove anni, la madre Libera lavora come lavandaia all´ospizio in cambio di un piatto di minestra, la sorella più piccola viene data in affidamento per un anno perché non ci sono soldi. Mario inizia a disegnare sui tronchi degli alberi. Non cuori, ma croci. A tredici anni diventa tipografo. Segni, ancora una volta: le macchie sui muri, i fili di ferro. «Meravigliosi». Nel ´53 acquista una Bencini Comet 5 e scatta due rullini al mare d´inverno. È la vigilia di Natale. Una ciabatta rotta, una stella di mare, la schiuma delle onde. Resti, per noi. Per lui: L´approdo. Nel ´57 gli pagano (in anticipo) un servizio su Lourdes. Parte, arriva, se ne va, sotto la pioggia. «Mi vergogno, non ce la faccio». Ridà indietro i soldi, anche quelli del viaggio. «C´era un bambino in carrozzella, con le gambe intrecciate, urlava come un gorilla». Lo rimproverano: ma come, hai ritratto i vecchi rotti e sdentati all´ospizio, nella sala d´attesa per la morte. E lui: «Sì, ma quelli avevano vissuto, questi invece no».
Giacomelli non è uno spettatore. Va al mattatoio, vede i maialini piangere, e scappa via. Va all´ospizio per tre anni, e non riesce più a mangiare. Ma dopo uscirà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Va in seminario, sempre per tre anni, curioso dei pretini, «figli di contadini», e butta via tutto. Però a Lourdes torna, con la moglie, per esigenze private, e stavolta fotografa. Spiega Simone: «Nel ´59 era nato Neris, mio fratello, che a pochi mesi dalla nascita ingoia una spilla da balia, ha un principio di soffocamento, con un deficit che lo lascia senza parole». Giacomelli vuole realizzare una serie sui disabili, I miei fratelli, ma non lo lasciano fare. Un anno prima si è rotto una gamba, e a causa del gesso, si è dato alla composizione, a quelle nature morte che giudica male. Nel ´65 inizia a frequentare una famiglia di contadini, ogni domenica mattina d´inverno fotografa sempre la stessa casa fino a quando nel ´95 la casa crolla. Per lui sono Le ragioni del tempo. Nel ´68 conosce Burri che gli piace molto: «Fossi un pittore mi piacerebbe essere lui». Tagli, vuoti, crudezza.
Dieci anni dopo Giacomelli è ancora vivo. Usato, conosciuto, imitato. Dice il pittore Leonardo Cemak: «Ha dato a tutti l´illusione che fosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo». Patrizia Molinari, artista: «Ha visto l´incommensurabile in un campo arato, nel volo di un gabbiano, nel viso di un folle in manicomio». Mirko Procaccini, grapich-designer: «Con una macchina fotografica scalcinata ha dato forza e visibilità a un panorama invisibile». Come spiega Ferdinando Scianna ai suoi allievi: «Giacomelli insegna che anche una tipografia di provincia può essere vissuta come una nave di pirati. Ognuno trovi il suo modo». Ricorda Simone: «Mi diceva sempre: quando sarai grande capirai. Non accettava l´ambiente che cambiava, la terra che si disfaceva, la violenza dell´uomo sulla natura. Chiedeva: perché? Ora che ho un figlio di sette anni capisco. Papà non mi ha lasciato foto, ma pezzi di vita, con un vocabolario». Una altro modo per dire: guarda le suture, il male che c´è sotto, non avere paura di abbassare gli occhi. E noi infatti oggi li alziamo.