Sergio Romano, Corriere della Sera 06/11/2010, 6 novembre 2010
PROTAGONISTI (E COMPRIMARI) DELLA STORIA
Esce da Rizzoli una raccolta di ritratti nati dal dialogo con i lettori del «Corriere della Sera». Anticipiamo un brano della premessa - Nel 1927 Angelo Fortunato Formiggini, il più scanzonato degli editori italiani, pubblicò due piccoli libri intitolati Antologia apocrifa in cui erano raccolte le parodie di alcuni fra i maggiori scrittori italiani del tempo, da Antonio Baldini a Ugo Ojetti, da Ardengo Soffici a Gabriele d’ Annunzio, da Massimo Bontempelli a Luigi Pirandello, da Giovanni Gentile ad Aldo Palazzeschi. L’ autore era Paolo Vita-Finzi, ebreo torinese, classe 1899 (quella che fu chiamata alle armi nell’ ultimo anno della Grande guerra), giornalista e scrittore, ma attratto dalla diplomazia in cui fece il suo ingresso nel 1924, quando il ministro degli Esteri a Palazzo Chigi era Benito Mussolini. Fu uno degli uomini più fini e intelligenti che mi sia capitato di conoscere. La sua carriera non fu particolarmente brillante. Fece il giro di parecchi consolati: Algeri, Düsseldorf, Tiflis nella Georgia sovietica (oggi Tbilisi), Rosario, Sydney: agli occhi del ministero sedi interessanti più che nobili. Ma ogni nuovo soggiorno gli offriva l’ occasione di descrivere e pubblicare, spesso con uno pseudonimo, o tenere nel cassetto, i costumi politici e i protagonisti del Paese in cui era stato mandato. Il suo Diario caucasico, pubblicato da Ricciardi nel 1975, è uno dei libri più tragicamente acuti e ironici sulla nascita del regime staliniano e la sconfitta di Trotzkij alla fine degli anni Venti. Era a Roma nel 1938, dopo il ritorno dall’ Australia, quando le leggi razziali costrinsero questo ebreo piemontese, combattente della Prima guerra mondiale, diplomatico del Regno e brillante scrittore italiano, a lasciare la carriera. Decise di partire per l’ Argentina dove ricominciò da capo e riuscì in pochi mesi a rifarsi una vita. Scrisse per La Nación, pubblicò una bella rivista italiana (Domani), entrò nel cenacolo della rivista Sur e frequentò scrittori che gli europei ancora non conoscevano: Jorge Luis Borges, Victoria e Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabato. Un saggio su Perón, pubblicato parecchi anni dopo da Pan, la piccola casa editrice milanese di Giuseppe Longo, è ancora oggi uno dei migliori libri sull’ Argentina di Evita e dei descamisados. Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra tornò in Italia e riprese il suo posto a Palazzo Chigi. Avrebbe potuto parlare delle persecuzioni sofferte, vendicarsi di coloro che gli avevano voltato le spalle, reclamare a gran voce un giusto indennizzo morale per i danni subiti. Ma era troppo schivo, se non timido, e troppo ironico per recitare una parte che non gli era congeniale. Generosamente saldò i suoi conti col regime che lo aveva esiliato pubblicando nel Mondo di Mario Pannunzio una serie di articoli in cui spiegava che le lontane radici del fascismo erano negli umori antidemocratici e antiparlamentari dell’ intellighenzia europea dei decenni precedenti, soprattutto in Francia e in Italia: Charles Péguy, Daniel Halévy, Georges Sorel, Benedetto Croce e i collaboratori della rivista fiorentina La Voce che aveva avuto una parte importante nella formazione della cultura italiana prima della Grande guerra. Gli articoli furono raccolti in un volume pubblicato da Vallecchi, Le delusioni della libertà, che precede di qualche anno gli studi di Zeev Sternhell sulle origini francesi dell’ ideologia fascista. Chiudo la lunga digressione e torno al suo libro più fortunato. L’ Antologia apocrifa ebbe molto successo e venne più volte accresciuta e ristampata sino a una edizione Bompiani del 1978 in cui le parodie sono cinquanta. Quasi tutti gli autori imitati e canzonati nella prima edizione furono lusingati dagli eleganti sberleffi di Vita-Finzi e lo ringraziarono. I recensori ne fecero le lodi e qualcuno segnalò la parodia che gli sembrava più azzeccata ed esilarante. La scelta cadde generalmente su quella di Giovanni Gentile, grande filosofo, allora impegnato nella creazione dell’ Enciclopedia Treccani. Era un testo straordinariamente barocco che cominciava con le parole: «Quando l’ Io dice: io sono non-Io, o semplicemente Io sono, il suo essere è realizzazione di sé»; e terminava con un periodo lungo dodici righe. Vita-Finzi lasciò dire per qualche tempo, ma a un certo punto, con una di quelle stoccate ironiche che facevano parte del suo stile, rivelò che l’ imitazione di Gentile non era apocrifa. Lo stile turgido e involuto di quel testo non era di Vita-Finzi. Era di Gentile. Come un pittore di trompe-l’ oeil riproduce minuziosamente un piatto di frutta sino a renderlo indistinguibile dalla realtà e completa l’ opera appiccicando una mosca vera sulla pelle vellutata di una pesca dipinta, così Vita-Finzi aveva dissimulato fra le sue parodie un testo autentico e aveva dimostrato così che la realtà può essere più caricaturale dell’ immaginazione. Confesso di non avere mai trovato nell’ opera di Gentile l’ originale del testo riprodotto da Vita-Finzi e non sarei sorpreso se il diplomatico irriverente, attribuendo al filosofo la propria parodia, avesse fatto un doppio gioco di prestigio, più pirandelliano di Pirandello. Ma quella fu la sua spiegazione ed è giusto credergli. Ho raccontato questa storia perché il lettore troverà in questo libro esattamente il contrario. Mentre Vita-Finzi ha nascosto il vero in una raccolta di falsi, io ho inserito un falso in una raccolta di veri. Hanna Schmitz, di cui si parla a pagina 173, non è mai esistita. Nel romanzo Der Vorleser di Bernhard Schlink e nel film A voce alta di Stephen Daldry che ne fu tratto, Hanna è una tedesca nata nel 1922, probabilmente originaria della Transilvania, giunta nel Reich con la famiglia verso la fine degli anni Trenta. È nata in una famiglia contadina e non ha mai imparato a leggere e a scrivere, ma trova lavoro in un reparto femminile delle SS ed è inviata in un campo di concentramento nazista per donne ebree dove chiede alle sue detenute di leggere ad alta voce per lei i libri che sono riuscite a portare con sé. Non capisce di essere diventata un’ aguzzina, non sa distinguere il bene dal male, è indifferente alla sorte delle sue lettrici, ha l’ apatia morale di un enfant sauvage. Ma quelle letture la incantano e la seducono. Alla fine della guerra riesce a nascondersi e riappare poco più di dieci anni dopo a Neustad dove ha trovato un impiego come bigliettaia nei tram della città. In un giorno di pioggia, mentre rientra nel suo appartamento, trova a un angolo della strada un ragazzo quindicenne, febbricitante. Lo porta con sé, lo ristora, lo rimanda casa. E qualche settimana dopo, quando Michael torna a ringraziarla, ne fa il suo amante. È un rapporto semplice e carnale, ma anche il ragazzo, senza rendersi conto del suo analfabetismo, diventa, come le detenute ebree del campo di concentramento, il suo lettore «ad alta voce». Soltanto otto anni dopo Michael, ora studente di giurisprudenza, troverà Hanna in un’ aula di tribunale dove viene processata, insieme ad altre custodi del campo di concentramento, per la morte di trecento ebree, bruciate vive in una baracca. La prova dell’ accusa è in un rapporto sul massacro che porta la sua firma. Hanna sostiene che il rapporto è falso, e il procuratore le chiede di sottoporsi a una perizia calligrafica, ma l’ imputata rifiuta. È troppo orgogliosa per confessare di essere analfabeta. Può accettare un lavoro ripugnante, ma non confesserà mai il suo «peccato». Può assistere impassibile alle sofferenze dei suoi simili, ma anche ascoltare rapita i poemi di Omero e le grandi opere del romanticismo tedesco. E preferisce essere condannata piuttosto che svergognata. I lettori che non conoscono né il romanzo né il film troveranno più in là il seguito della storia di Hanna Schmitz. Il suo personaggio è fittizio, ma la sua storia contiene elementi che sono presenti anche in molte persone reali di questo libro. Quando si occupa del passato senza pregiudizi e teoremi, lo storico scopre che gli uomini e le donne in cui si imbatte, e che sono la materia prima del suo lavoro, sono quasi sempre una combinazione di vizi e virtù, di nobili aspirazioni e di bassi interessi, di generosità e cinismo, di grande intelligenza e di sorprendente stupidità. E quando comprende che il bene, negli avvenimenti storici, è raramente disgiunto dal male, e l’ intelligenza non è mai lontana dalla stupidità, gli è più facile capire perché la storia sia irrazionale, contraddittoria, spesso assurda e, in ultima analisi, terribilmente umana.
Sergio Romano