Luigi La Spina, La Stampa 6/11/2010, Enrico Cisnetto, Il Messaggero 6/11/2010, 6 novembre 2010
Dossier Draghi-Tremonti Luigi La Spina, La Stampa 6/11/2010 Qualche volta le occasioni capitano. Ma, più spesso, si scelgono
Dossier Draghi-Tremonti Luigi La Spina, La Stampa 6/11/2010 Qualche volta le occasioni capitano. Ma, più spesso, si scelgono. L’ultima applicazione di questa regola l’ha dimostrata, ieri, il governatore della Banca d’Italia, con la sua lezione magistrale all’università di Ancona. Mario Draghi, infatti, ha approfittato del convegno in onore di Giorgio Fuà, il grande studioso italiano dedicatosi soprattutto ai problemi dello sviluppo, per un discorso che ha superato i tradizionali limiti dell’economia, suggerendo una ampia strategia politica per il futuro dell’Italia. Con la consueta stringatezza, il governatore è riuscito a condensare in tredici cartelle quasi un programma di governo, di cui l’invito finale, citato per intero, basta a fare capire l’ambizione e la difficoltà della sua proposta: «Dobbiamo tornare a ragionare sulle scelte strategiche collettive, con una visione lunga. Cultura, conoscenza, spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro. La sfida, oggi e nei prossimi anni, è creare un ambiente istituzionale e normativo, un contesto civile, che coltivino quei valori, al tempo stesso rafforzando la coesione sociale». Il profilo di queste parole, cadute, occasionalmente ma significativamente, in un clima di polemiche dominate da temi che, con un eufemismo, potremmo definire «di minore impegno», fanno pensare che la vera futura partita politica si giocherà, probabilmente, sul campo dell’economia. Con due protagonisti, Draghi, appunto, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, finora, hanno costruito la loro immagine con certosina sapienza e prudenza. In un duello a distanza che è riuscito in una miracolosa impresa, anzi in due. Quella di tenerli lontani da qualsiasi schizzo di fango proveniente dalle cronache politiche d’oggi, sfruttando con abilità silenzi istituzionali quanto mai opportuni. E quella, forse ancor più difficile, di ingaggiare una tenzone cultural-diplomatica che dura da anni, ma i cui altalenanti andamenti non li hanno, come capita spesso, immiseriti reciprocamente. La competizione tra via Nazionale, sede della Banca d’Italia, e via XX Settembre, dove è collocato il ministero dell’Economia, è riuscita a svolgersi ben fuori dal ristretto perimetro romano in cui gravitano i due palazzoni. Si è proiettata, infatti, su un palcoscenico mondiale che ha assistito, con divertita ma rispettosa curiosità e, magari, con un pizzico di malizia, al balletto di freddi sorrisi e di gelide battute da parte di due personaggi che, nel frattempo, crescevano nella considerazione internazionale. Le plutarchiane «vite parallele» di Draghi e di Tremonti si sono fronteggiate anche in una sfida culturale che ha fatto uscire l’economia dal suo tradizionale ambito, fatto di aride cifre e di previsioni statistiche spesso smentite dai fatti. Il governatore, assumendo una carica che l’ha costretto a uscire dagli elitari circuiti finanziari tra i quali era più conosciuto, ha progressivamente allargato il suo sguardo all’interesse per i grandi mutamenti demografici, culturali, sociali, tecnologici avvenuti a cavallo dei due secoli nelle nostre società. Il ministro ha pubblicato una serie di pamphlet filosofico-politici sugli effetti della globalizzazione, culminati, l’anno scorso, con il fortunato saggio «La paura e la speranza» che ha suscitato un acceso dibattito, sia in Italia, sia all’estero A questa comune propensione di Draghi e di Tremonti all’allargamento delle relative iniziali competenze culturali e professionali verso i campi più vasti dell’intera scienza umana si è unita una bizzarra inversione di ruoli nella pratica quotidiana del loro lavoro. Il governatore, pur non abdicando, naturalmente, ai compiti di severità nel giudizio sul controllo dei conti dello Stato ha sollecitato spesso il ministero dell’Economia e, in generale, il governo nel suo complesso a una maggiore sensibilità e attenzione per i problemi della crescita e della modernizzazione della struttura produttiva italiana. Con una particolare preoccupazione per i giovani, angustiati dalla disoccupazione e della precarietà del lavoro. Appello fondamentale, del resto, anche nella lezione anconetana di ieri. In questa seconda esperienza ministeriale in via XX Settembre, Tremonti, invece, si è caratterizzato soprattutto come un duro custode della contabilità nazionale, fino al punto di diventare il ministro più inviso e temuto dai suoi colleghi, costretti a dolorosi tagli nei loro budget di spesa. Insomma, Draghi sembra aver invaso i compiti del ministro dell’Economia e dell’Industria (quando non era vacante). Tremonti ha indossato i panni del più arcigno banchiere centrale. Il risultato di questi curiosi intrecci tra due personaggi diversissimi per indole, propensioni culturali, stili di vita, storie professionali e umane li pone, così, in prima fila per la candidatura alla guida del futuro politico della nazione. Per meriti loro, naturalmente. Per demeriti altrui, vista la debolezza della nostra attuale classe politica, anche. Soprattutto perché i tempi di crisi sollecitano un vigoroso e coraggioso piano di riforme economiche. Chissà se sarà proprio dalla scienza che Carlyle definiva «triste» che potrà arrivare ai cittadini italiani, nel prossimo decennio, un po’ di felicità. *** Enrico Cisnetto, Il Messaggero 6/11/2010 DOPO Marchionne, Draghi. Il governatore della Banca d’Italia ha ieri ribadito, cifre alla mano, quanto sia grave il deficit di competitività e produttività di cui soffre l’economia italiana. Una valutazione convincente, la sua, anche perché nel mazzo delle cause di questa situazione Draghi non ha mancato di mettere anche le aziende, oltre che i lavoratori già tirati per le orecchie da Marchionne, e più in generale il difetto di social capability del Paese, cioè quell’insieme sistemico determinato dal quadro politico e giuridico, dal sistema di valori condiviso, dalla mobilità sociale, dal livello d’istruzione, dalla disponibilità di infrastrutture. Il quadro che emerge dai dati è inconfutabile. In uno scenario in cui l’intera Eurolandia sta perdendo peso nello scenario globale secondo le stime del Fondo Monetario, tra il 2000 e il 2015 la sua quota di Pil mondiale scenderà dal 18% al 13% mentre nello stesso periodo quella dell’Asia raddoppierà, dal 15% al 29%, l’Italia non solo ha pagato carissima la recessione (quasi 7 punti di Pil) ma ha accumulato una pesante perdita di competitività rispetto non ai Paesi emergenti cosa inevitabile ma ai principali partner europei. Da cosa si evince? Primo: tra il 1998 e il 2008 (i dieci anni dell’euro) il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia, mentre è addirittura diminuito in Germania. Secondo: nello stesso decennio la produttività è aumentata del 22% in Germania, del 18% in Francia, ma solo del 3% in Italia. Terzo: la crescita del prodotto per abitante in Italia si è azzerata, perché siamo passati dal +3,4% annuo degli anni Settanta, al +2,5% degli anni Ottanta, al +1,4% degli anni Novanta, fino alla stasi dell’ultimo decennio. Dato questo quadro, cosa possiamo fare? Il governatore di Bankitalia lo ha detto e ripetuto più volte: le riforme strutturali. Ieri ne ha palato partendo, in omaggio all’economista Giorgio Fuà di cui si celebrava il ricordo nella sua Ancona, rievocando la vecchia definizione di “modello di sviluppo tardivo” dell’Italia. Il che significava e continua in buona misura a significare marcati e persistenti difetti nella dimensione e nella tipologia delle imprese, da un lato, e nel mercato del lavoro, dall’altro. Nel primo caso ne derivava un dualismo tra imprese “moderne” e “pre-moderne”, con ampie differenze di produttività, capacità di innovazione (più di prodotto che di processo). Draghi dice giustamente che quella vecchia distinzione rimane, specie sul terreno delle dimensioni, e che la conseguenza è la crescente difficoltà per le imprese più piccole (il 95% del totale) di sfruttare le economie di scala e competere con successo nel mercato globale. Sul fronte del lavoro, invece, Draghi sostiene che il dualismo si è addirittura accentuato rispetto al passato. Da un lato rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata in circa il 12% del totale delle unità di lavoro ma francamente è un dato che sta nella media Ue mentre dall’altro la diffusione dei contratti a termine, se ha portato ad aumentare l’occupazione negli anni pre-crisi più che nell’area euro, ha anche incrementato la precarietà. E Draghi dice senza mezzi termini qui credo distante anni luce dalla “ricetta Marchionne” che “senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Rimane però da spiegare in che modo si può ottenere un risultato simile, senza pesare sulle imprese in una fase in cui sarebbe invece necessario incoraggiarle ad investire. Forse si potrebbe dire che andrebbe smontato un doppio “doppio eccesso”. Il primo “doppio eccesso” è quello dato dal trattamento opposto di cui godono i precari veri (fonti sindacali dicono siano 2,5 milioni, fonti imprenditoriali parlano di mezzo milione) e i lavoratori a tempo indeterminato: troppo poco (diritti, salario) agli uni, troppo (rigidità varie) agli altri. Il secondo “doppio eccesso” è quello che divide i lavoratori del privato da quelli del pubblico, a favore di questi ultimi. Trovare un giusto equilibrio sarebbe l’ideale. Ma questo riguarda sì la dialettica tra le parti sociali che dovrebbe farsi più intraprendente ma anche gli interventi riformatori da parte del governo. Cui Draghi chiede di rimuovere anche le altre cause, più tipicamente del sistema-Paese, che rendono poco competitiva l’Italia, a cominciare dalla liberalizzazione del sistema dei servizi (sacrosanto: ricordiamoci che il manifatturiero pesa solo per il 30% nella formazione del Pil). Ma qui si apre il difficile discorso sulla capacità del sistema politico non solo di questo governo di riuscire a fare ciò che non si è fatto nell’intero arco di esistenza della Seconda Repubblica.