Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  novembre 11 Giovedì calendario

Bruno Vespa festeggia un battesimo ma è un lutto. Mercoledì 27 ottobre ha consegnato alla Mondadori con tre giorni d’anticipo l’ultimo capitolo del suo nuovo libro , in vendita dal 5 novembre

Bruno Vespa festeggia un battesimo ma è un lutto. Mercoledì 27 ottobre ha consegnato alla Mondadori con tre giorni d’anticipo l’ultimo capitolo del suo nuovo libro , in vendita dal 5 novembre. «Un gesto gentile, sa com’è, c’erano i rotativisti impazienti su a Cles, in Trentino: dovevano stamparne 230 mila copie». Di solito i suoi tomi li chiude il sabato per essere in libreria il venerdì successivo, roba che manco Speedy Gonzales. «Ho fatto male ad accelerare, accidenti. Perché così ho bucato la storia di Ruby e del bunga bunga. Mi scoccia maledettamente». Come dargli torto? Dopo i casi Noemi Letizia e Patrizia D’Addario, la vicenda della minorenne d’origine marocchina spacciatasi per maggiorenne pur di arrivare a tiro di Silvio Berlusconi avrebbe completato una trilogia gossippara di grande interesse in un libro che, intitolandosi Il cuore e la spada e avendo per sottotitolo Storia politica e romantica dell’Italia unita 1861-2011, deve rovistare sotto le lenzuola del potere. Sfogliando le 864 pagine per la modica somma di 22 euro, i lettori non avranno comunque di che lamentarsi già a partire dalla pagina 45, dove Vespa chiarisce che oggi non saremmo qui a preparare le celebrazioni per il 150° anniversario della nazione se non fosse esistito Vittorio Emanuele II, «chiamato “padre della patria” non solo perché fu il primo sovrano dell’Italia unita, ma anche perché disseminò le sue terre di figli legittimi e, soprattutto, illegittimi». Un «erotomane, sessualmente superdotato, particolare che gratificava molte amanti, ma ne spaventava altrettante», tanto che «il suo dottore di corte aveva un gran da fare per riccomodare uteri spostati» come racconta Carlo Dossi, scrittore lombardo di fine Ottocento, nelle sue Note azzurre. «Quel Giove terrestre, quando coitava, ruggiva come un leone. Amava che le donne gli si presentassero nude con scarpettine e calzette; e fumando sigari Avana si divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano intorno. Ma a un tratto lo pigliava l’estro venereo e le sfondava tutte». Nonostante i ruggiti, il «padre della patria» non fa la parte del leone nel libro di Vespa: appena 16 citazioni, 7 in più del suo successore Vittorio Emanuele III, che pure in 46 anni di regno dovette fare i conti con le uniche due guerre mondiali combattute dall’umanità. Fra i 2.117 nomi alle prese con affari di cuore e di spada, guida la classifica Silvio Berlusconi, nominato ben 508 volte, seguito da Benito Mussolini (333), Bettino Craxi (228), Giuseppe Garibaldi (170), Camillo Benso conte di Cavour (150), Giovanni Giolitti (149), Romano Prodi (145), Alcide De Gasperi (136). Soltanto a molte lunghezze di distanza si rintraccia il personaggio di cui pare che Klemens von Metternich solesse dire: «Ebbi a lottare col più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro imperatori, re e papi. Ma nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano, magro, pallido, cencioso, eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome Giuseppe Mazzini». Il fondatore della Giovine Italia deve aver fornicato assai poco se, nonostante il cancelliere austriaco lo reputasse il più grande di tutti, lei gli riserva solo 94 citazioni. E 92 sono negative. Confesso la mia più profonda disistima per Mazzini. Intendiamoci: ideali rispettabili. Ma un disastro d’uomo, un irresponsabile totale. Ogni volta che si alzava dal letto, combinava un guaio. Fosse rimasto a scrivere sotto le coltri, forse avrebbe spedito meno seguaci all’altro mondo. Quanto al sesso, circolava la voce che fosse impotente. Ebbe una sola donna, Giuditta, una radicalchic, vedova di un patriota emiliano. Lei lo chiamava Pippo. Ora, se c’era una persona al mondo alla quale mai e poi mai avrebbe potuto attagliarsi il giocoso diminutivo oggi in uso per Baudo, questi era proprio Mazzini, abituato fin dall’età di 22 anni a vestirsi di nero in segno di lutto per la patria oppressa. Dopo essere stato lasciato da Giuditta, tornò al suo totale disinteresse per il genere femminile. Un amico gli gettò tra le braccia una ragazza perché la sposasse. Fu respinta con disgusto. Ha pesato più il cuore o la spada nelle vicende dell’Italia unitaria? La spada. Ma sanguinante di cuori trafitti. Secondo lei, come mai Cavour litigava sempre con la cugina Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, che aveva spedito a Parigi affinché seducesse Napoleone III e lo convincesse all’alleanza franco-piemontese? Quella che Urbano Rattazzi definì la «vulva d’oro del Risorgimento», famosa per un cifrario su cui appuntava le sue prestazioni amorose: «e» per «embrassements», abbracci; «b» per «baisers», baci; «bx» per baci meno ortodossi; «f» per rapporto completo. Non saprei. Perché non gliela dava, ovvio! Cavour era un grandissimo scopatore. C’è un’epigona della contessa di Castiglione nell’Italia del 2010? Tante. Tutte quelle che l’hanno data. Ma non alla patria. Per restare ai politici sensibili al fascino femminile, furono attribuiti adulteri anche a Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica. La leggenda vuole che fosse stata aperta una porticina segreta nei giardini del Quirinale per farvi transitare le amanti. Si fosse trattato di Berlusconi, si sarebbe levato in volo un elicottero carico di fotogiornalisti a ogni entrata e a ogni uscita. Perché le vicende relative allo sfortunato matrimonio tra Francesco Cossiga e Giuseppa Sigurani furono sempre circondate da una cortina di rispettoso riserbo, mentre quelle dell’attuale premier sono tutti i giorni sui giornali? Io ricordo una sola foto della first lady «Peppa», rubata al mercato col teleobiettivo. Allora vigeva un altro rispetto. Che resiste altrove. Nicolas Sarkozy ha fatto licenziare Alain Genestar, direttore di Paris Match, e due cronisti del Journal du Dimanche che avevano osato occuparsi dei suoi affari di cuore. E François Mitterrand ha potuto tenere per più di 20 anni una seconda moglie e la figlia Mazarine, nata dalla relazione extraconiugale, in una casa dello stato, imbarcandole su auto e aerei pure quelli di stato, senza che uscisse una sola riga. Lei ha rischiato di passare alla storia d’Italia come uno dei tanti figli illegittimi di Benito Mussolini. Una cosa pazzesca, una fola messa in giro da quell’anima nera della nipote, Alessandra. All’inizio non ci ho dato peso, alla fine mi sono imbufalito. Deve sapere che i miei genitori si sposarono all’Aquila il 24 luglio 1943. Pensi se mia madre Irma poteva essere deportata sul Gran Sasso, dove il Duce era prigioniero, col velo nuziale ancora addosso. La verità è che non andò mai ad Assergi, e men che meno a Campo Imperatore, prima del 1949, quando prese servizio come maestra elementare, portandomi con sé per farmi frequentare la «primina» a 5 anni. Fra l’altro, vista la notevole somiglianza con mio fratello Stefano, si dovrebbe supporre una reincarnazione del Duce nel 1957. A proposito di reincarnazioni, pensa che un altro Mussolini possa tornare? No. Però gli italiani hanno l’insopprimibile desiderio di essere comandati. In fin dei conti Berlusconi ha vinto tre volte, e una volta ha perso per sbaglio, così come il Duce fu portato al potere su una sedia gestatoria retta da tutti, socialisti, liberali, cattolici, a parte don Luigi Sturzo. Pensi a che cosa scriveva la rivoluzionaria Anna Kuliscioff a Filippo Turati: «Deve premerci l’assorbimento del fascismo nella normalità della convivenza sociale. Nessuno, se non Mussolini, avrebbe potuto raggiungere la pacificazione. Lasciamo tempo al tempo, senza molestarlo con punzecchiature inutili». A quale dei personaggi storici del suo libro può essere assimilato Berlusconi? Lui e il Duce hanno un tratto in comune che spartiscono con Umberto Bossi e Giorgio Almirante: il rapporto diretto con la folla. Berlusconi ha azzerato la mediazione: non ha partito, bada solo al dialogo con la gente, come il Duce quando parlava dal balcone di Palazzo Venezia. Se devo invece valutare dal punto di vista del fiuto politico, tolgo Berlusconi, lascio Mussolini e Bossi, aggiungo Craxi. Come se la caverebbe oggi Craxi se fosse al posto di Berlusconi? Bel dilemma. Gianfranco Fini è per Berlusconi ciò che Ciriaco De Mita era per Craxi. Solo che allora c’erano meno impazzimenti. Si odiavano, ma rispettavano le regole del gioco. In che modo Craxi avrebbe regolato i conti con Fini? Sarebbe andato alle elezioni. Erano tempi, quelli, in cui se il premier chiedeva il voto anticipato, il capo dello stato glielo concedeva. La tradizione fu interrotta da Oscar Luigi Scalfaro. Giolitti, che aveva una maggioranza come quella di cui dispone Berlusconi, si recò dal re e chiese elezioni anticipate. Dopodiché in campagna elettorale cambiò 46 prefetti, scegliendo tutti amici suoi. Che cosa pensa della richiesta di archiviazione per l’indagine della procura di Roma che vede indagato Fini per la casa di An venduta a Monte-Carlo e affittata al «cognato» Giancarlo Tulliani? Solo un fatto tecnico. È stato documentato che l’immobile fu ceduto a un terzo del suo reale valore di mercato. Il danno sarà giudicato in una causa civile. Facciamo conto che questa storia fosse capitata a un altro: non so come sarebbe andata a finire. In Italia non si bada a quello che accade, ma a chi accade e a chi conviene che accada. Il suo libro si apre con questa frase: «L’unità d’Italia si è fatta per caso». In Veneto e al Sud la correggerebbero così: «L’unità d’Italia si è fatta per forza». Si è fatta per caso usando la forza. Nessuno l’aveva programmata. Metternich considerava l’Italia un «nome geografico», non un’«espressione», come abbiamo sempre tradotto in senso dispregiativo. Cioè un luogo. Chi avrebbe mai detto che sarebbe diventata una nazione? Se alle prossime elezioni 6.417.580 italiani votassero per il Pd e appena 690 per il Pdl e lei fosse il ministro dell’Interno incaricato di vigilare sulla regolarità dello scrutinio, che cosa penserebbe? Che qualcosa non quadra. E se poi la informassero che 20 milioni di elettori non si sono recati ai seggi? Peggio ancora. Divida per 10: è precisamente ciò che accadde nel plebiscito del 20 ottobre 1866, quando il Veneto fu annesso all’Italia con 641.758 sì e 69 no. Piccolo dettaglio: i favorevoli dovevano usare un’urna, i contrari un’altra. E in molte località, per esempio a Malo, nel Vicentino, le schede del sì avevano un colore diverso da quelle del no. Tutti i plebisciti furono drogati. Basti pensare che la percentuale più bassa di annessionisti, raggiunta in Toscana, fu del 97,43 per cento. Neanche in Bulgaria. In Sicilia si contarono 432.053 sì e 667 no; sul continente, 1.302.000 sì e 10.312 no. Però la volontà di unirsi c’era. Può darsi che mi sbagli. Insomma, pensa che il Risorgimento sia culminato in una guerra di liberazione o di occupazione? Nel Regno delle Due Sicilie non v’è dubbio che fu una guerra di occupazione. Solo quel pazzo di Mazzini pensava che le popolazioni locali si sarebbero sollevate spontaneamente. Per ciò che ci hanno insegnato a scuola sul padre della Giovine Italia, dovremmo far causa al ministero dell’Istruzione. Ritiene che i Savoia abbiano portato il progresso nel Meridione? Per la verità portarono le tasse. Non sapevo che nel regno borbonico le imposte fossero soltanto 5, contro le 22 introdotte dai Savoia. E insegnarono la speculazione edilizia ai palazzinari romani. Gli edifici fra Castel Sant’Angelo e il quartiere Prati furono edificati dai piemontesi. Ho abitato lì per 20 anni. Be’, a un certo punto abbiamo dovuto far verificare la staticità dell’edificio. Precursori del cemento impoverito. Qualcosa del genere. Poi i romani ci hanno aggiunto le sopraelevazioni, gli attici abusivi. Portarono almeno la civiltà al Sud? Un po’ sì. Sarà. Però, come riferisce Pino Aprile nel suo best-seller «Terroni», quando i piemontesi razziarono la Reggia di Caserta e stilarono un inventario del bottino, annotarono «un oggetto non identificato a forma di chitarra»: non avevano mai visto un bidè. Sì, però Ippolito Nievo scrisse alla madre dalla Sicilia che lì si viveva come nel 1600. Sui 150 anni dell’unità ho avuto uno scambio di vedute con Raffaele Lombardo, presidente della Regione Siciliana: «A Grammichele, cittadina d’origine della mia famiglia, c’è una strada intitolata al generale Enrico Cialdini. Per oltre un secolo abbiamo celebrato i genocidi di questo ufficiale savoiardo, poi senatore del Regno d’Italia, che fece fucilare uomini, donne, vecchi, preti e bambini. I bersaglieri legavano ai pali le minorenni e le violentavano a turno sotto gli occhi dei padri. È questo che dovrei celebrare?». Ha ragione. Hanno compiuto massacri terribili, di cui la mia generazione è stata tenuta all’oscuro. Ci hanno educati a un Risorgimento totalmente eroico. Non fu così. Noto tuttavia che nel suo libro attribuisce per sette volte a Garibaldi il titolo di «Eroe dei Due Mondi». Io sono innamorato di Garibaldi. Ma se perfino la pronipote dell’eroe, Anita, che vive nel culto dell’illustre antenato, mi ha detto che «le camicie rosse erano bande di irregolari». Be’, certo, quando mai li hanno inquadrati? Le bande richiamano alla mente i banditi. Garibaldi è un mito. Un uomo dal coraggio sovrumano. Anche dal culo sovrumano. Dalle mie parti, l’unica cosa che si dice di Garibaldi è che stava per essere arrestato con Anita fra le braccia, nelle valli di Comacchio, per trasporto di eroina. Bellissima battuta. «Giuseppe Garibaldi era l’unico che credeva sul serio nell’Unità con la U maiuscola», lei scrive nel libro. Nel 1852 credeva anche nello schiavismo. È l’armatore ligure Pietro Denegri, proprietario della nave Carmen affidata all’Eroe dei Due Mondi, a testimoniare che Garibaldi approda a Lima da Canton con un carico di guano e le stive piene di cinesi: «M’ha sempre portati i chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute. Perché li trattava come uomini e non come bestie». Vero, vero. Trasportava di tutto. Siamo sicuri che le guerre d’indipendenza siano state davvero moti popolari? No, non lo furono assolutamente. Nacquero da movimenti intellettuali e borghesi. Solo a Milano, con le Cinque giornate, furono rivolta di popolo. E infatti sotto il fuoco austriaco caddero popolani, artigiani, operai. Possibile che siano bastati i Mille per liberare l’Italia da Marsala a Bezzecca? Io credo che ci sia stato un notevole lavoro di intelligence, una complicità degli inglesi nello sbarco in Sicilia e una larga corruzione di funzionari borbonici. Solidarizzo molto con Franceschiello. Francesco II, quinto e ultimo Borbone sul trono di Napoli. A Gaeta si distinse per un’intrepida resistenza e dopo la capitolazione se ne andò in esilio senza portarsi via nulla, neppure l’argenteria di casa. Io me la sarei portata. Il referendum monarchia-repubblica del 1946 fu inficiato da brogli? Ce ne furono. Si parla di 2 milioni di schede contestate. Ma anche dopo i controlli restano sempre 200 mila voti in più a favore della repubblica. Re Umberto si comportò molto bene. Giulio Andreotti mi ha sempre detto che De Gasperi lo considerava una persona perbene, al contrario del padre. Ma come fa a nascere una nazione sana da consultazioni popolari tutte gravate da pesanti sospetti di falsificazioni? Le fondamenta sono marce. Non mi ci trascina su questo terreno. Non mi estorcerà battute antiunitarie. I garibaldini furono accolti abbastanza bene, dài. Oddio, è anche vero che poi gli italiani si adeguano sempre. Se si facesse oggi un referendum sull’unità d’Italia, a suo giudizio quanti voterebbero per il mantenimento dello statu quo e quanti invece sceglierebbero le macroregioni, Nord, Centro e Sud, che vanno bene sia a Bossi che a Lombardo? Io parto dal principio che più uno stato è federale e più deve avere una fortissima identità. Negli Stati Uniti nessuno metterebbe mai il Minnesota contro il Texas. Quando ai funerali delle vittime degli attentati dell’11 settembre vidi il presidente in carica che cantava l’inno nazionale insieme con i suoi predecessori, tutti tenendosi una mano sul cuore, capii che noi siamo un grande paese ma quella è una grande nazione. E crede che il grande paese resisterà altri 150 anni oppure si spaccherà prima? Secondo me festeggeremo anche i 300. Nell’Italia dei Savoia che ruolo si sarebbe ritagliato? Direttore della «Gazzetta del Regno»? Meglio inviato del Risorgimento, il quotidiano torinese fondato da Cavour. E nell’Italia fascista? Direttore dell’agenzia Stefani? No, avrei ambito a scrivere su Primato, il quindicinale di Giuseppe Bottai, insieme a tutta quella che poi sarebbe diventata l’intellighenzia comunista. Vada a leggersi l’indice dei nomi. A parte Leo Longanesi e Indro Montanelli, vedrà che pantheon. È mai stato tentato dal mettersi in politica? Mai. Così come non sono mai entrato in una sezione di partito. Ricordo che mezzo secolo fa un mio collega liberale, Mario Stara, mi lasciò sulla scrivania un modulo di adesione al Pli. Mi rifiutai di riempirlo. Qual è la prima emergenza nazionale? La divisione della maggioranza. Perché, se non governi, tutto diventa emergenza. Prevede elezioni anticipate? A giorni alterni. Non ho ancora capito a chi giovino in questo momento. È una situazione paradossale. Ne ho viste tante, ma questa ancora non l’avevo vista. Chi è stato il miglior presidente della Repubblica? Luigi Einaudi nel passato, Francesco Cossiga in tempi recenti. Il miglior presidente del Consiglio? De Gasperi, in assoluto. Ho avuto una discussione con Berlusconi su questo. Lui sostiene d’essere il più bravo di tutti. Quando gli ho obiettato che il migliore fu lo statista trentino, ha concluso: «Dobbiamo riparlarne». Il miglior capo dell’opposizione? Il Migliore per antonomasia: Palmiro Togliatti. Non Enrico Berlinguer? Bel quesito. Togliatti obbediva a Stalin, però ebbe il merito di tenere sempre a bada l’ala rivoluzionaria di Pietro Secchia, dalla quale poi nacquero le Brigate rosse. Forse avrei dovuto indicare Antonio Gramsci, per il quale ho un’autentica ammirazione. Il miglior segretario di partito? Di nuovo De Gasperi. Anche se io gli rimprovero la perdita dell’Istria e della Dalmazia. Non l’ho mai digerita. Come scrisse il presidente americano Thomas Wilson, i confini delle nazioni vanno tracciati rispettando il «principio di nazionalità». L’Alto Adige avrebbe dovuto andarsene con l’Austria. Cossiga mi spiegò che all’Urss non importava nulla del Sudtirolo: voleva allargare la Jugoslavia e l’Italia cedette. Infatti quando il presidente emerito andò in visita al Circolo degli italiani di Pola, nessuno si alzò in piedi. Che cosa risponde a chi le rinfaccia di utilizzare massicciamente telegiornali e programmi del servizio pubblico per promozionare ogni suo nuovo libro con uno stillicidio di ghiotte anticipazioni? Se sono ghiotte, significa che sono notizie e i tiggì, che io sappia, sono fatti di notizie. In Rai mi accontento dei salotti nazional-popolari. Né io né Giampaolo Pansa siamo mai stati invitati da Fabio Fazio a Che tempo che fa, dove un’intervista da sola basta a decretare la fortuna di un libro. E perché Fazio non v’invita? Lo chieda a lui. Abbiamo un rapporto eccellente, cominciò a mietere successi facendo la mia imitazione. Solo che mi considererà una frequentazione poco raccomandabile. La Mondadori chiese ospitalità il primo anno. Rifiutata. Per carità, capisco di non essere Indro Montanelli, ma insomma… In che cosa è diversa la sua storia d’Italia da quella di Montanelli? Indro era molto più bravo di me. Al genio si perdona molto, dunque poteva permettersi qualche verosimiglianza. Io devo documentare tutto, altrimenti mi fanno il mazzo. Se avessi scritto che ho intervistato Adolf Hitler alla frontiera con la Polonia nel 1939, sarei stato costretto a esibire le impronte digitali del Führer. Ma dove ha trovato il tempo per riempire 864 pagine fra un «Porta a porta» e l’altro? Non sono come Alberto Moravia, che lavorava dalle 9 alle 13 e il pomeriggio andava a passeggio per cercare l’ispirazione. Ma neanche come Vittorio Alfieri, che si faceva legare alla sedia dal cameriere. Siccome mi annoio di tutto molto in fretta, devo continuamente cambiare attività e fra un impegno e l’altro infilo la scrittura, a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo. Potrebbe campare di diritti d’autore? Conducendo una vita più sobria, e non pagando 10 mila euro d’affitto al mese, sì. Nella storia dell’unità d’Italia che parte avrebbe potuto interpretare Michele Santoro? Chissà, forse qualche ruolo giù al Sud, però nelle retrovie. Un giornalista così, odiato persino da Massimo D’Alema perché critica da sinistra i postcomunisti, dove lo vuoi piazzare? È rimasto fermo a Servire il popolo. Credo che Garibaldi, incontrandolo, avrebbe cambiato itinerario pur di non essere costretto a imparare da lui come si fa la rivoluzione. E Marco Travaglio? Ma per carità, ragazzi! Bene o male l’unità d’Italia è stata una cosa seria.