Maurizio Ricci, la Repubblica 5/11/2010, 5 novembre 2010
SOFTWARE, ENERGIA E FARMACI: L’INDIA COSTRUISCE IL SUO FUTURO
Sul muro annerito, i grafici della produzione e del fatturato si allineano dentro una lavagna, fissati con le puntine da disegno. Accanto, l´icona religiosa del titolare, il dio gianista Mahavira. La fabbrica è poco più di un capannone, con la facciata rossa, un po´ scrostata. Il fatturato 2009 è stato di 10 milioni di rupie: al cambio, circa 162 mila euro. Ma, se ci fermiamo all´istantanea, ci sfugge quello che sta avvenendo in India. Bisogna vedere il film in movimento. In quest´area di Gurgaon, il sobborgo industriale di Delhi, messa in piedi dal governo nel 2003, ci sono già 2.500 aziende: alcune grandi, come la Honda o la Mitsubishi, il grosso piccole come questa, la Core Auto Components. Sotto i grafici, il padrone della Core Auto è seduto alla scrivania: il Blackberry da un lato, un MacIntosh davanti, una camicia a righe con il colletto bianco, in perfetto stile Wall Street, il volto timido e sbarbato dietro gli occhiali.
Shagun Jain ha 25 anni. Ha aperto la fabbrica tre anni fa, quando ne aveva 22. Ha iniziato con 7 operai. Oggi ne ha trenta, che lavorano su tre turni di otto ore al giorno, spesso anche la domenica, e producono ogni mese 25 mila freni a disco per la Suzuki, 20 mila per la Toyota. Quei grafici sul muro schizzano tutti all´insù. Il fatturato è cresciuto del 60% nel 2009. Quest´anno salirà ancora del 70%. L´anno prossimo, la Core aprirà un secondo stabilimento, una trentina di chilometri più lontano da Delhi, tre volte più grande di questo. Ma Shagun guarda già altrove, lontano dai freni a disco: «Nel giro di due anni - dice - conto di entrare nel business del cibo organico».
Al di là della parete, i suoi operai, emigrati dal Bihar o dall´Assam, gli stati indiani più poveri, hanno più o meno la sua età: stanno davanti ai macchinari in ciabatte, il tetto del capannone è in amianto. L´antinfortunistica, qui, deve ancora arrivare. Nessuno, del resto, ha probabilmente un contratto regolare. Secondo la Camera di commercio indiana, ci sono 45 milioni di imprenditori come Shagun in India. Se il combustibile del miracolo indiano sono i consumi interni, anziché le esportazioni, come in Cina, il motore non sono i grandi complessi statali del «dragone», ma la massa vibrante delle imprese private. Solo metà delle piccole e medie aziende private cinesi riesce ad avere soldi dalle banche: il credito è quasi interamente requisito dalle imprese statali. In India, era così fino agli anni ‘90. Ma adesso, racconta Shagun, non più. «Il merito - dice - è delle liberalizzazioni e dei prestiti agevolati delle banche ai giovani. Basta avere una buona idea, investire in un settore in crescita».
Naturalmente, continua Shagun, essere anche «innovativi». E´ l´obiettivo dichiarato di qualsiasi imprenditore del pianeta, ma, nel caso indiano, non è una semplice giaculatoria. L´innovazione, in India, è una cosa seria e storicamente radicata. Questo spiega perché la struttura dell´industria indiana sia relativamente più sofisticata e moderna, rispetto a paesi analoghi: più simile (e spesso più avanti) al Brasile che alla Cina. L´India è, infatti, in prima fila nei settori del prossimo futuro: sono indiani grandi pionieri del software, come Infosys e Wipro, alfieri dei farmaci generici come Ranbaxy, battistrada del biotech come Biocon, colossi delle energie alternative come Suzlon. Non è il panorama di un´industria impegnata, soprattutto, a metabolizzare la tecnologia occidentale. Più specificamente, sottolinea Nanda Nilekani, uno dei fondatori della Infosys, «le aziende indiane sono state particolarmente efficaci nell´ideare pratiche e prodotti, tagliati su misure per i paesi emergenti e i consumatori poveri», i mercati, oggi, in maggiore espansione. L´esempio più noto è la Nano, della Tata Motors, l´auto da 2 mila dollari, la più economica al mondo. Ma la stessa Tata produce un filtro che, per poco più di mezzo dollaro, fornisce ad una famiglia acqua potabile per un mese. Questa estate, ricercatori indiani hanno presentato il prototipo di un computer portatile da 35 dollari. Non è solo un problema di tecnologie, ma anche di strategie aziendali: «Grazie al dinamismo delle nostre telecom - nota Nilekani - l´India è il paese in cui chiamare con il telefonino costa meno al mondo».
Questo dinamismo travalica, ormai, i confini nazionali. L´India è patria di veri e propri giganti mondiali. Ancora una volta a differenza della Cina, non sono aziende statali a dominare il panorama, ma colossi privati, retti da un pugno di grandi famiglie. L´indirizzo è Altamount Road, nel cuore di Mumbai. La torre, di vetro e acciaio, è alta 173 metri, per 27 piani, con una piazzola per elicotteri in cima e un garage per 168 macchine in fondo. L´hanno chiamata Antilia, come una mitica isola dell´Atlantico. Ci sono voluti sette anni per finirla e, adesso, i proprietari sono pronti ad entrare, insieme ad una corte di 600 domestici. E´ la nuova casa di Mukesh Ambani, 52 anni, boss della Reliance, una conglomerata con ramificazioni praticamente ovunque, dal tessile all´energia, e uno dei quattro uomini più ricchi al mondo, secondo Forbes. Fra i suoi vicini, in questa sorta di quadrato magico di Mumbai, Mukesh troverà il quasi ottantenne Ratan Tata e il quarantenne Kumir Birla, altri due degli uomini più ricchi al mondo. Il gotha degli straricchi, del resto, in India è nutrito. Nella classifica Forbes dei 25 uomini più ricchi d´Asia, c´è un solo nome della Cina continentale, Zong Qinhou, il re delle bibite. Gli altri quattro vengono da Hong Kong e devono la loro fortuna soprattutto alle proprietà immobiliari. Gli indiani in classifica sono, invece, dieci e sono tutti industriali. Gli Ambani, i Mittal, i Ruia, i Jindal, i Birla sono imprenditori, per lo più di seconda e terza generazione, che devono la fortuna di famiglia a settori tradizionali, come le raffinerie, l´acciaio, il cemento e che adesso si stanno aggressivamente espandendo in settori nuovi, dalle energie alternative, alle telecomunicazioni, ai servizi finanziari. E´ una strada già battuta con successo in questi anni. Azim Premji, 64 anni, il boss del gigante del software Wipro, è partito dall´industria alimentare del padre. Sono, peraltro, gerarchie in movimento.
Nilekani nota che alcune delle maggiori aziende indiane sono nate negli anni ´80. Nelle liste degli straricchi è entrato di prepotenza Sunil Mittal, 52 anni, che ha creato dal nulla Bharti Airtel, oggi, con 140 milioni di abbonati, il maggior operatore di telefonia mobile indiano. Ma anche la Jet Airways, che domina il mercato aereo interno, è un´azienda giovane, come il colosso delle infrastrutture Gmr.
La povertà immobile delle campagne, le torme di mendicanti, la reggia di Ambani, il boom dell´outsourcing. «L´India - ricorda lo scrittore Pankaj Mishra - è un paese che vive in più secoli contemporaneamente». Sicuramente, però, fra questi secoli c´è il ventunesimo. L´ascesa delle classi medie, il dinamismo delle piccole imprese, la capacità di innovazione, le tasche profonde dei grandi gruppi sono la miscela che può far tornare a volare «l´uccello d´oro», come l´India veniva definita mille anni fa. Noi siamo già in grado di intravederlo. Meno di un mese fa, la Harvard Business School ha ricevuto una donazione di 50 milioni di dollari, la più cospicua mai ricevuta da un non americano. A sborsare i dollari è stato Ratan Tata: più che l´omaggio di un ex alunno, serve a marcare il punto della propria presenza internazionale. La Tata Motors è l´azienda della Nano, ma è anche la nuova padrona di vecchie bandiere d´Occidente, come la Jaguar e la Land Rover.
Lakshmi Mittal, 59 anni, fondendo la belga Arcelor con l´indiana Mittal, si ritrova alla testa del più grande gruppo siderurgico mondiale. Se Mukesh Ambani condurrà in porto l´acquisto della olandese LyondellBasell, controllerà una delle maggiori aziende chimiche globali. Sono nomi che dobbiamo imparare a conoscere, come, una volta, facevamo con Ford e Rockefeller.