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 2010  novembre 11 Giovedì calendario

TROPPI DOLLARI SUL MERCATO


La dichiarazione ufficiale risale al 27 settembre, quando il ministro delle finanze brasiliano Guido Mantega affermò che "la guerra internazionale delle valute ci minaccia perché distrugge la nostra competitività". Ma la guerra è cominciata dall’inizio della crisi. Ogni paese vuole svalutare la sua moneta per aumentare le esportazioni e ridurre la disoccupazione. È una politica miope ed egoista: scarica il costo della crisi sui partner commerciali. Se tutti cercano di farlo, ci perdono tutti, come negli anni Trenta, quando il protezionismo ridusse il volume del commercio internazionale, peggiorando la crisi.
A livello internazionale la consapevolezza del problema esiste, ma tutti cercano di scaricare la colpa sugli altri. Gli americani attribuiscono la responsabilità ai cinesi: sono loro che mantengono la loro moneta sottovalutata per continuare ad esportare negli Stati Uniti. Dall’altro lato il governo cinese risponde che la colpa è del governo americano, anzi della Federal Reserve Bank, che aumentando l’offerta di dollari induce una svalutazione della moneta americana, destabilizzando tutti gli altri paesi.
Chi ha ragione? La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Il governo cinese è impegnato da anni ad impedire una rivalutazione dello yuan. Per evitarla continua a comprare miliardi di dollari, mantenendo artificialmente basso il valore della sua moneta rispetto al dollaro. Questi acquisti aumentano l’offerta di credito negli Stati Uniti. Molti economisti, a cominciare dal governatore della Fed, Ben Bernanke, ritengono che questo influsso di liquidità sia stata la maggiore causa della crisi. Ma la soluzione non è in una rivalutazione dello yuan. Anche se la valuta cinese si rivalutasse del 20-30 per cento, il costo di produzione della maggior parte dei beni in Cina rimarrebbe inferiore a quello in America e le importazioni di beni cinesi in America non si ridurrebbero di molto. In altri termini, una rivalutazione dello yuan non risolverebbe il deficit commerciale Usa, né creerebbe la domanda per impiegare tutti quegli americani che sono oggi disoccupati.
Il vero problema è che la Cina nel suo complesso consuma molto meno di quello che produce. Questa differenza si traduce in un forte avanzo della bilancia dei pagamenti: se a livello mondiale un paese produce più di quello che consuma, ce ne deve essere un altro che consuma più di quello che produce. Nello scorso decennio l’eccesso di consumo negli Stati Uniti ha compensato l’eccesso di risparmio in Cina. Oggi, però, gli Usa non possono più permettersi di farlo. E qui nasce il problema. O un altro paese si assume la responsabilità di bilanciare la Cina e consumare di più di quel che produce o si genera un eccesso di offerta a livello mondiale, che forza una riduzione dei prezzi, ovvero una deflazione.
Per contrastare questa deflazione, la Federal Reserve ha aumentato la quantità di dollari in circolazione. Invece di aumentare la domanda di beni negli Stati Uniti, questa liquidità si traduce in un influsso di investimenti nei paesi emergenti, con conseguente rivalutazione delle loro monete (da cui le proteste del ministro brasiliano). In questo senso cinesi e brasiliani hanno ragione: per stimolare la crescita negli Stati Uniti, la Fed destabilizza l’economia mondiale. Ma la causa prima dello squilibrio è in Cina. Non tanto lo yuan sottovalutato, ma l’eccesso di risparmio. Questo eccesso è dovuto solo in parte alle famiglie, costrette a risparmiare in un sistema in cui la pensione futura è minima o inesistente e il supporto dei figli limitato dalla politica del figlio unico. Gran parte del risparmio è accumulato dalle imprese, molte pubbliche, che risparmiano molto più di quello che investono. Il problema quindi è che le imprese cinesi pagano i loro operai troppo poco e distribuiscono troppo pochi dividendi.
Se gli americani vogliono eliminare il rischio di deflazione a livello mondiale e fare ripartire la loro economia, la soluzione non è costringere i cinesi a rivalutare lo yuan o aumentare l’offerta di dollari al fine di svalutare la moneta americana rispetto a quella cinese. La guerra tra valute ha più costi che benefici. La soluzione è quella di accelerare il processo di democratizzazione in Cina. Una Cina democratica distribuirebbe una fetta maggiore dei profitti alle famiglie sotto forma di dividendi e di aumenti salariali. Questo aumenterebbe il consumo di beni americani da parte dei cinesi, riequilibrando la bilancia dei pagamenti americana senza alcuna svalutazione.