Gianni Perrelli, L’espresso 11/11/2010, 11 novembre 2010
CARCERI COME FABBRICHE
Liu Xiaobo, il premio Nobel, è detenuto nella prigione di alta sicurezza di Jinzhou (provincia di Liaoning), costruita nel 1953 su un’estensione di quasi 600 mila metri quadri e capace di ospitare fino a 1.500 reclusi. Il carcere è anche una fabbrica di prodotti elettrici e per il riscaldamento. Il nome ufficiale è Jinzhou Switch Factory e fra il 2002 e il 2004 ha investito circa 20 milioni di euro nell’acquisto di macchinari dalla Svizzera, dalla Finlandia, dalla Corea del Sud e da Taiwan. Il balzo tecnologico è valso nel 2006 alla pregiata ditta l’inserimento fra le dieci migliori industrie di Jinzhou (porto
a nord-est della Cina con tre milioni di abitanti). Un piccolo Nobel per una delle tante società di capitali che prosperano intorno all’universo carcerario cinese, producendo ed esportando in Occidente una vasta gamma merceologica (giocattoli, scarpe, articoli per la casa, utensili tessili
e agricoli, veicoli, autobus). L’attività è promossa sul Web dall’agenzia governativa China Commodity Net, in cui si rintracciano i nomi di 314 imprese commerciali. Altri siti (circa un centinaio) reclamizzano i prodotti in varie lingue (33 in italiano). Un sistema di distribuzione capillare che assicura forti introiti dall’Europa (non più dagli Usa dove una legge blocca l’importazione di prodotti da lavori forzati). E che rende finanziariamente autonoma una grande quantità di carceri.
Le iniziative imprenditoriali della prigione di Jinzhou sono descritte nell’ultimo rapporto della Laogai Research Foundation, creata in Virginia (Usa) dall’attivista per i diritti umani Harry Wu, con una succursale italiana molto attiva. Il fondatore, nato a Shanghai nel ’37, fu arrestato una prima volta nel ’60 perché "cattolico e controrivoluzionario" e rilasciato nel ’79. Nell’85 emigrò in America e diventò cittadino statunitense. Ma negli anni successivi tornò ripetutamente in Cina per indagare sui campi di concentramento. Nell’ultimo viaggio fu di nuovo fermato e liberato solo grazie a un intervento del Congresso americano.
Laogai è un’abbreviazione di "laodong gaizo dui" ("riforma attraverso il lavoro"). Quanti siano è un segreto. Si ipotizza che siano oltre un migliaio e che ospitino dai tre ai cinque milioni di prigionieri. La Laogai Research Foundation ritiene che siano almeno un centinaio le carceri che, mescolati ai delinquenti comuni, detengono reclusi per reati di opinione.
Oltre Liu Xiaobo, i prigionieri più noti sono Du Daobin (scrittore), Huang Qi (condannato per violazione di segreti di Stato), Hu Jia (blogger), Shi Tao (denunciò l’arresto arbitrario di alcune delle madri di Piazza Tiananmen), Tan Zuoren (accusò i funzionari corrotti dopo il terremoto nel Sichuan del 2008), Wang Bingzhang (uno degli storici leader nelle battaglie per la democrazia). È stato invece appena liberato dopo quattro anni Chen Guangchen (attivista cieco che
si è battuto contro la campagna di aborti forzati). I morti per esecuzioni capitali sarebbero svariate migliaia e i loro organi sarebbero stati espiantati e venduti.
Nei laogai sono costretti ai lavori forzati tutti i condannati con pene superiori ai cinque anni. L’autorità giudiziaria è autorizzata a trattenere in prigione per tre anni senza processo a scopo rieducativo anche i cittadini sospettati di attività sovversive. Molto esteso è pure il fenomeno delle "black jails", carceri abusive in edifici affittati da autorità locali per impedire che chi ha subito torti denunci i soprusi alle alte sfere di Pechino. La polizia può protrarre fino a tre mesi, senza mandato di un giudice, il fermo di chiunque sia indiziato di qualsiasi reato.
Durante il processo, non è garantito il diritto alla difesa secondo gli standard occidentali. Il 90 per cento dei rinviati a giudizio finiscono nei laogai. E i direttori delle prigioni, in caso di esigenze di produzione, possono trattenere a tempo indeterminato ai lavori forzati anche chi ha finito di scontare la pena (juyie). "Ci può essere una fine al laogai", è il motto che circola fra i carcerati. "ma il juyie può durare per sempre".
Nelle prigioni più dure non esiste nessuna norma di igiene. Le razioni di cibo sono proporzionali al rendimento sul lavoro e costringono i meno efficienti a combattere la fame andando a caccia di serpenti e di topi. I detenuti in isolamento sono rinchiusi in celle di due metri senza bugliolo e a dormire a volte su giacigli di pietra. Il rapporto della Laogai Research Foundation denuncia pure casi di violenze fisiche anche se la Cina fin dagli anni Ottanta ha ratificato la convenzione Onu contro la tortura.