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 2010  novembre 05 Venerdì calendario

QUANTO IL DNA LIBERISTA AMERICANO HA PESATO NEL GIUDIZIO SU OBAMA

L’esito delle recenti votazioni statunitensi è stato letto come un verdetto di condanna per le politiche economiche che l’amministrazione Obama ha realizzato in risposta alla crisi finanziaria e «reale». Secondo questa lettura il voto di Main Street avrebbe sanzionato il fallimento degli interventi pubblici in economia, il conseguente rifiuto di aumenti della spesa governativa e il ritorno all’ideologia liberista di un mercato che si autoregola e assicura alti tassi di crescita e di occupazione. Certamente il liberismo fa parte del dna americano. Siamo però sicuri che il voto abbia rappresentato un ritorno all’accettazione acritica delle virtù dei meccanismi di mercato? Quando Obama assunse la presidenza nel gennaio 2009, la situazione era drammatica: il settore finanziario si trovava sull’orlo della bancarotta, i mutevoli piani di salvataggio varati dall’amministrazione Bush avevano fallito, l’economia «reale» era in grave recessione. Il mondo della finanza sembrava rassegnato alla pubblicizzazione delle maggiori banche del Paese e nessuno si sarebbe affidato ai soli meccanismi di mercato per uscire dalla più grave crisi degli ultimi settantacinque anni. Nei primi tre mesi di vita, la nuova amministrazione Obama ottenne insperati successi: varò un piano finanziario di stabilità (il Financial stability plan), articolato in sette programmi di intervento pubblico-privato, che arrestò lo sfaldamento del sistema finanziario; sostenne la domanda pubblica ed effettuò interventi mirati a favore delle imprese non finanziarie, che accelerarono la fine della recessione nell’economia «reale»; diede un contributo decisivo al successo del G-20 di Londra (aprile 2009), che segnò simbolicamente il punto di svolta della crisi. Inoltre, fin dall’estate del 2009, il Dipartimento del Tesoro avviò cambiamenti nella regolamentazione e nella vigilanza dei mercati finanziari sfociati, a luglio 2010, nella pur contrastata riforma Dodd-Frank. Tali fatti smentiscono che la risposta, fornita dall’amministrazione Obama all’emergenza finanziaria e «reale» di inizio 2009, sia stata fallimentare e che, per questa ragione, la popolazione statunitense sia pronta a ritornare a un liberismo acritico come quello pre-crisi. Piuttosto, il voto di sfiducia nei confronti del Presidente e della sua squadra appare dettato da una complessa commistione di delusione e di paura. Il dato deludente è che, dopo la rapida uscita dall’emergenza, la politica economica di Obama non abbia saputo ripristinare robusti tassi di crescita e sconfiggere — così — la carenza occupazionale. Anche grazie alla dura opposizione repubblicana, questo dato si è poi trasformato nella paura diffusa che l’egemonia economica statunitense fosse finita e che l’impoverimento del Paese fosse ineluttabile. Autorevoli commentatori ne hanno tratto la conclusione che l’amministrazione Obama abbia la «colpa» di aver attuato interventi pubblici troppo timidi e, in generale, una politica economica non sufficientemente keynesiana; altri hanno invece sostenuto che la severità della crisi finanziaria e «reale» non avrebbe comunque consentito una solida ripresa nel breve periodo. Nei prossimi anni i numeri e le analisi ci diranno quale delle due interpretazioni sia più fondata. Fin da ora possiamo però affermare che Obama va sottoposto a due capi di accusa: non ha affermato con sufficiente forza che, dopo una crisi epocale come quella del 2007-09, nulla avrebbe più dovuto e potuto essere come prima; non ha proposto una strategia di politica economica e sociale che delineasse il lungo cammino per la costruzione di una nuova economia del «dopo crisi». Gli elettori, privati della speranza nel futuro, hanno così preferito ritornare all’ideologia consolidata del «meno Stato, più mercato».
Marcello Messori