Massimo Gaggi, Corriere della Sera 05/11/2010, 5 novembre 2010
BRAND, L’ECOPRAGMATICO «SI’ A NUCLEARE E OGM» —
Che razza di ambientalista è un fan degli organismi geneticamente modificati e dell’energia nucleare, convinto che i processi di urbanizzazione — le megalopoli nelle quali ormai si ammassa la metà del genere umano — siano un fattore di sviluppo e un’occasione per risparmiare energia? «Sono un biologo ecologista che in 40 anni ha cambiato alcune idee: solo le pop star suonano sempre la stessa musica. Ho commesso errori, ma ho cercato di correggerli. Alla mia età non sono più attratto dall’affascinante, ma impossibile o improbabile: preferisco il difficile, ma possibile».
Stewart Brand, bandiera dei «tecno-hippy» e uno dei padri riconosciuti della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, ha sempre sorpreso amici e avversari per le sue visioni, l’allergia agli schemi ideologici, la capacità di scavalcare le barricate. Col suo ultimo libro, Una cura per la Terra, pubblicato all’inizio dell’anno negli Usa e ora anche in Italia, Brand ha però lasciato senza fiato anche molti ambientalisti che hanno sempre dialogato con lui. Questo Manifesto di un ecopragmatista, come recita il sottotitolo del volume edito in Italia da Codice, è infatti un concentrato di eresie: dall’elogio delle radiazioni all’ipotesi di interventi di geo-ingegneria per cambiare artificialmente il clima del pianeta (che lo scienziato non auspica ma che, dice, in certe circostanze potrebbero rivelarsi il minore dei mali).
Si può non essere d’accordo con Brand, ma è difficile ignorare o liquidare questo studioso 72enne come uno dei tanti esperti che, dopo una militanza verde più o meno convinta, scoprono i vantaggi della consulenza aziendale. Il suo Whole Earth Catalog, pubblicato per la prima volta nel 1968 e le cui edizioni successive sono state vendute in milioni di copie, fu la bibbia del movimento per il ritorno alla terra degli anni Settanta ed è stato anche il testo che ha consentito a un’intera generazione di americani di scoprire le potenzialità delle energie alternative, dal solare all’eolico.
Nella sua revisione critica ha fatto più fatica ad accettare gli Ogm o a cambiare posizione sull’atomo?
«Ho studiato biologia 50 anni fa a Stanford» racconta Brand dalla sua casa di Sausalito nella baia di San Francisco, in California, mentre si prepara a partire per l’Italia, dove partecipa al Festival della Scienza di Genova «e quindi per me l’ingegneria genetica in agricoltura e la biologia sintetica non sono mai state entità aliene. Anche chi diffidava ormai dovrebbe ricredersi: negli Usa i raccolti di cereali Ogm sono abituali da 15 anni e non sono stati registrati effetti nocivi, la sicurezza dei vegetali ingegnerizzati non è più in discussione. Semmai bisogna fare attenzione a come gli agricoltori utilizzano la nuova tecnologia. Per il nucleare è diverso: per molti anni anch’io l’ho osteggiato. Pensavo che, col problema delle scorie radioattive, avremmo ingiustamente e irresponsabilmente caricato sulle spalle delle future generazioni una questione molto ardua da risolvere. Ma ero male informato. Ed ero anche stato tratto in inganno». Da chi? «Da alcuni dei miei amici ambientalisti secondo i quali non c’è soluzione al problema delle scorie. Poi mi sono messo a studiare e ho scoperto che non è vero: la difficoltà non è tecnica ma politica. È un problema anche questo, ma di ordine diverso. Anche il nodo delle radiazioni emesse da una centrale è stato drammatizzato oltremisura. Basta entrare in un ospedale che usa ogni tipo di radiazioni per esaminare l’organismo umano, fare diagnosi e curare il cancro, per capire che anche qui si tratta di saper usare sostanze che rappresentano insieme un’opportunità e un pericolo».
Insomma, il suo è l’ecopragmatismo del male minore…
«Bisogna saper guardare i pericoli in prospettiva: il pericolo principale, quello che può avere effetti disastrosi per tutti noi e che stiamo sottovalutando, è il global warming, il riscaldamento globale. Lo combattiamo solo a parole e la situazione rischia di degenerare entro pochi anni. Il nucleare non sarà perfetto ma, in base alle tecnologie oggi disponibili, è l’unica arma efficace a nostra disposizione per produrre elettricità senza bruciare carbone e gas».
La considerazione che il genere umano può distruggere quello che ha costruito ha portato Brand a promuovere, insieme ad altri scienziati e ad artisti come il tecnologo Danny Hills e il musicista Brian Eno, la «Long Now Foundation» (Fondazione del lungo presente), che sta costruendo nel deserto del Texas un grande orologio meccanico semplice, robusto, capace di funzionare per diecimila anni senza alcun intervento dell’uomo. Inoltre 25 anni fa Brand ha fondato, assieme a Larry Brilliant, Well (Whole Earth Lectronic Link), un prototipo di comunità virtuale, una specie di «social network» dell’era precomputer.
Con la sua ipotesi di un intervento di geoingegneria capace di cambiare il clima della Terra, non le sembra di essersi spinto troppo in là?
«Io non sono un sostenitore degli interventi di ingegneria climatica: sono molto pericolosi. Sono, però, anche pessimista sulla capacità dell’uomo di risolvere il problema delle emissioni di "gas serra" che riscaldano l’atmosfera. Quella dell’ingegneria del clima, a un certo punto, potrebbe anche diventare una via obbligata. Meglio prepararsi per tempo, studiare i problemi, le soluzioni, le controindicazioni». Un esempio? «Molti climatologi ritengono che sia possibile imitare gli effetti dell’eruzione di un vulcano come quella del Pinatubo (Filippine, 1991) che fece salire nella stratosfera 20 milioni di tonnellate di polveri che, diffondendosi in tutta l’atmosfera terrestre, l’anno successivo provocarono una diminuzione di mezzo grado centigrado della temperatura dell’intero pianeta. C’è chi dice che sei esplosioni come quella del Pinatubo farebbero scendere la temperatura di 3 gradi, compensando l’effetto serra prodotto dall’uso di combustibili fossili. Riprodurre un’eruzione non è possibile, ma imitarne gli effetti, diffondendo nella stratosfera biossido di zolfo, è relativamente facile. Ma per me non è una soluzione praticabile: gli oceani diventerebbero ancora più acidi e in molte regioni cambierebbe il clima. Vale, però, la pena di studiare e prepararsi a ogni eventualità». Sulle megalopoli, invece, non ha riserve… «L’urbanizzazione fa crescere le città e le città sono officine di innovazione, centri di creazione della ricchezza, luoghi dove si risolvono problemi. E poi vivendo in città, dove tutto è concentrato, si risparmia energia».
Un’ultima domanda, non sull’ecologia ma sull’informazione. Lei ha coniato molti celebri aforismi uno dei quali, «l’informazione vuole essere libera», ha condizionato lo sviluppo di Internet ed è diventato la bandiera dei blog, fautori del «tutto gratis», contrapposta al modello a pagamento del giornalismo professionale. Il suo pensiero è stato interpretato correttamente?
«Solo in parte. Quelle parole sono del 1984 e la frase completa è: l’informazione vuole essere costosa, ma l’informazione vuole anche essere libera. Un modo per sottolineare la contraddizione tra la volontà di attribuire un prezzo elevato a un’informazione che è così importante per le nostre vite e, dall’altro lato, la facilità di distribuire e riprodurre le notizie in formato digitale, con un costo che tende a essere azzerato. Come la riferisce lei, la citazione è distorta perché parziale».
Massimo Gaggi