Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 05/11/2010, 5 novembre 2010
MA I REPUBBLICANI (PALIN IN TESTA) ORA MARCIANO VERSO LA CASA BIANCA —
«Be’, se non c’è nessun altro, potrei fare il sacrificio...». Già prima della grande vittoria repubblicana di martedì, Sarah Palin si era detta pronta a candidarsi alla Casa Bianca. Ma subito hanno espresso perplessità sia il clan che ha retto il partito negli ultimi trent’anni, i Bush, sia il candidato del 2008, McCain, che conosce bene la Palin per averla scelta come vice nella corsa fallimentare contro Obama. McCain ha mandato avanti la moglie Cindy: «Spero che Sarah capisca che nel partito e nel Paese bisogna includere tutti». Ma lo stop più duro è venuto da Karl Rove, già demiurgo di Bush junior e tuttora ascoltato stratega repubblicano: «Ci sono requisiti che l’America chiede al suo presidente. Uno di questi è la gravitas. Ho appena visto la Palin intervenire al reality show sull’Alaska, che lei stessa produce. Ecco, questa non è gravitas ».
L’occasione è ghiotta. A leggere i dati definitivi delle elezioni, un leader che riunisse dietro sé il Partito repubblicano avrebbe la Casa Bianca in pugno. Sono andati a destra non solo tutti gli Stati conservatori che due anni fa avevano votato Obama, dall’Indiana al North Carolina, non solo tutti gli Stati in bilico che determinano le presidenziali, dalla Florida all’Ohio, ma anche Stati di tradizione operaia come la Pennsylvania e il Michigan. Il problema è che nel Partito repubblicano un leader manca. Il fallimento dell’amministrazione Bush ha aperto un vuoto generazionale; non ha chances neppure un nome noto in Europa come Condoleezza Rice, considerata un tecnico senza appeal nel partito e infatti già tornata a insegnare a Stanford. Ogni tanto spunta il nome di Jeb Bush, ma pare più che altro una suggestione. Così i repubblicani sembrano divisi tra un establishment anchilosato, che produce uomini senza carisma, e una base suggestionata dal movimento antipolitico dei Tea Party. E si preparano alle primarie o vecchi arnesi, o outsider costruiti dai media che — proprio come Obama — non hanno mai governato uno Stato o retto un ministero o amministrato un’azienda in vita loro.
Mitt Romney e Newt Gingrich si sono spesi molto in questa campagna elettorale. Ma hanno fatto quasi metà dei loro trenta comizi in due, piccoli Stati: l’Iowa e il New Hampshire. Sono, guarda caso, quelli da cui cominciano le primarie. Gingrich insegue da quasi vent’anni il momento di gloria che ebbe nel ’94, quando fu lo speaker della prima Camera a maggioranza repubblicana dai tempi di Eisenhower. Invece Romney, ultimo a cedere a McCain nelle scorse primarie, è tra i vecchi repubblicani quello che ha preparato meglio la nuova corsa. Da mesi l’ex governatore del Massachusetts raccoglie finanziamenti, per una campagna tutta giocata sull’economia e sulla sua esperienza nel business. Un’altra candidatura solida potrebbe essere quella di Haley Barbour, 63 anni, governatore del Mississippi e presidente dell’associazione dei governatori repubblicani. O di Chris Christie, molto popolare sui blog di destra per i modi spicci con cui affronta gli interlocutori: 48 anni, massiccio, origini italiane, governa il New Jersey, Stato a maggioranza democratica, dopo averlo ripulito come procuratore generale. Si è fatto vedere molto nell’Iowa anche Mike Pence, già numero 3 repubblicano alla Camera, che si è dimesso per saggiare le sue potenzialità da leader. E Tim Pawlenty, governatore del Minnesota, farà sapere in marzo se correrà in proprio o si metterà a disposizione del vincitore come vice.
I volti che passano in tv in questi giorni sono altri. Il pianto del nuovo speaker della Camera, John Boehner, mentre cita l’«American dream» ricordando l’infanzia in Ohio con undici tra fratelli e sorelle e l’adolescenza passata a servire ai tavoli della taverna del padre, resterà l’immagine simbolo di queste elezioni; anche perché l’accorto Boehner ha badato a non smettere di parlare, e quindi di piangere. Ma nei prossimi due anni il suo mestiere sarà un altro: fronteggiare Obama in Congresso. Lo stesso farà il repubblicano preferito dal Wall Street Journal, Paul Ryan del Wisconsin, futuro presidente della commissione Bilancio della Camera e autore del piano per la riduzione del debito federale. In genere, gli uomini troppo esposti sul fronte parlamentare appaiono al pubblico logorati dall’aura negativa di Washington. E’ il tempo degli outsider; a cominciare dalla Palin.
I suoi beniamini non sono andati tutti benissimo: Sharron Angle che invocava l’insurrezione armata contro Washington ha perso la sua corsa da senatrice del Nevada, che ha invece eletto un governatore repubblicano; Christine O’Donnell che voleva vietare la masturbazione è stata sconfitta in Delaware; a New York Carl Paladino, che ha fatto campagna con una mazza da baseball in mano, ha preso poco più della metà dei voti di Andrew Cuomo. Però sono decine gli eletti che devono qualcosa alla Palin. Jim DeMint, senatore della South Carolina, veterano avvicinatosi ai Tea Party, contrario all’aborto «anche in caso di stupro e incesto». Rand Paul, figlio dell’ex candidato alla Casa Bianca Ron, oculista, neosenatore del Kentucky, che come segno di buona volontà ha assicurato che i suoi tre ragazzi vorrebbero conoscere le figlie di Obama. E Marco Rubio, la novità più interessante.
Figlio di esuli cubani, nato a Miami 39 anni fa da un barman e da una donna delle pulizie, ha impostato gli spot elettorali sulla storia della sua famiglia. Troppo inesperto per correre in prima persona, può essere un vice ideale per un candidato repubblicano che voglia allargare la propria base. Queste elezioni hanno confermato che il blocco conservatore resta maggioritario. Ma i repubblicani diventano sempre più un partito di bianchi, maschi e di mezz’età, in un Paese dove nel 2050 i latinos saranno maggioranza. Non a caso sta crescendo una nuova generazione meno rigida su immigrati e diritti civili, il cui leader naturale è Eric Cantor, capofila degli «young guns» e neo-leader dei deputati. L’associazione dei giovani repubblicani si è espressa a favore dei matrimoni omosessuali. Ed è un militante gay, il californiano Fred Karger, il primo candidato ufficiale alle primarie — ovviamente senza chances —, accanto al businessman del Montana Jon Greenspon. Il miliardario vero, alla Trump o alla Bloomberg, resta un’ipotesi sempre valida. Come l’outsider dalla storia affascinante, come Obama, o semplicemente di gradevole aspetto. L’altra sera la Cnn ha lanciato il senatore del South Dakota John Thune: è fresco ma non giovanissimo (49 anni, come il presidente), è cristiano ma non fanatico, e soprattutto «è proprio bello».
Aldo Cazzullo