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 2010  novembre 05 Venerdì calendario

OBAMA SI CONCENTRA SULL’ASIA PER SUPERARE LA BATOSTA ELETTORALE —

Col viaggio in Asia che inizia oggi «Obama passa da un mal di testa all’altro», ironizza il vecchio Leslie Gelb, ex capo del Council on Foreign Relations, acuto commentatore della politica estera Usa che ha dedicato il suo ultimo libro, «Power Rules», al cambiamento del ruolo della potenza Usa nel Ventunesimo secolo. Dopo aver incassato sul fronte interno quella che lui stesso ha definito una «batosta», il leader americano parte infatti oggi per la missione più impegnativa della sua presidenza che lo porterà a visitare quattro grandi democrazie asiatiche (Giappone e Corea, gli alleati «storici», più la nuova potenza indiana e l’Indonesia, il più popoloso Paese del mondo a maggioranza musulmana). Il suo viaggio si concluderà, poi, con la partecipazione al G20, il summit mondiale che si riunirà la prossima settimana a Seul, e al vertice Apec di Yokohama: un importante momento di consultazione tra i Paesi che si affacciano sul Pacifico. Con gli Stati dell’Estremo Oriente che, spaventati da un nazionalismo della Cina che sembra crescere allo stesso ritmo del suo sviluppo economico, chiedono agli Usa una maggior presenza strategica — politica e anche militare — nell’area.
Per Barack Obama per certi versi questo viaggio sarà un altro calvario: indebolito dalla sconfitta elettorale, oltre che dalla crisi economica e dall’esplosione del debito pubblico Usa, il presidente americano — nota Gelb in un articolo scritto per il sito Daily Beast — troverà interlocutori ansiosi di ottenere rassicurazioni e impegni sulla tenuta economico-finanziaria degli Stati Uniti. A Seul dovrà probabilmente affrontare anche l’irritazione dei Paesi emergenti e degli stessi alleati europei per la scelta delle autorità monetarie di Washington di inondare nuovamente di liquidità un sistema economico ancora in affanno, col conseguente indebolimento del dollaro. L’uomo della Casa Bianca non potrà, poi, di certo negoziare da posizioni di forza nell’incontro (che avrà in margine al G 20) con Hu Jintao: il presidente cinese che proprio ieri è stato «incoronato» dalla rivista Forbes uomo più potente del mondo, un gradino sopra lo stesso Obama.
Ma questo viaggio è per il presidente americano anche una grande opportunità: non solo quella di sostituire per qualche giorno i titoli di quotidiani e servizi tv sulla disfatta democratica con un messaggio di volontà di rilancio del ruolo degli Stati Uniti in Asia, ma anche quella di coprire almeno in parte le lacerazioni politiche dell’America con la bandiera unificante del sostegno alle democrazie.
In politica estera, diceva ieri il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, Mike Hammer, l’esito delle elezioni conta poco: esiste una comunanza di interessi e una continuità politica che rendono molto più facile seguire una linea «bipartisan». Ed è su questo solco che si muoverà Obama fin dalla prima tappa, in India. A Mumbai visiterà la casa del Mahatma Gandhi e poi, a New Delhi, renderà omaggio al suo sepolcro. Ma la visita in questo Paese ha anche una grande importanza commerciale e politica: l’economia indiana, in crescita prorompente, ha portato via agli Usa molti posti di lavoro, ma è anche una delle poche in grado assorbire più esportazioni americane. Oltre ai vertici politici, Obama incontrerà i maggiori imprenditori indiani: coi quali ci sono molte opzioni aperte ma anche difficoltà perché gli altri protagonisti mondiali non stanno certo a guadare.
Quanto al profilo politico, è chiaro l’interesse americano ad una crescita del profilo strategico dell’India in chiave di contenimento da Sud del gigante cinese. Un discorso che verrà certamente fatto, ma che resterà sottotraccia per non irritare Pechino (e non suscitare gelosie e sospetti da parte del Pakistan, alleato Usa ma anche avversario dell’India).
Obama dovrà essere molto abile a bilanciare i suoi interventi in modo da esercitare il suo ruolo di unica potenza capace di contenere la Cina senza irritare troppo Pechino. Potrebbe, anzi, cercare di sfruttare la forza militare degli Usa nel Pacifico come un elemento politico capace di bilanciare l’indebolimento economico del Paese. Dopo la parentesi in Indonesia (i luoghi nei quali il giovane Obama è cresciuto e ha studiato, la visita alla grande moschea Istiqlal e un discorso di apertura al mondo islamico fatto sotto forma di dialogo con gli studenti dell’Università di Jakarta) e prima dei colloqui per rassicurare gli alleati giapponesi e coreani, sarà proprio l’incontro con Hu Jintao il momento cruciale della sua lunga missione.
Lo è per la difficoltà dei problemi oggettivi sul tappeto — da un lato la resistenza di Pechino a svalutare lo yuan e ad aprire maggiormente il suo mercato interno a imprese e prodotti Usa, dall’altro le tentazioni protezioniste degli Stati Uniti e la loro posizione di debitori «spendaccioni» che restituiscono ai creditori cinesi dollari svalutati — ma anche perché la Cina sta diventando per gli americani e per lo stesso Obama un vero e proprio incubo. Più delle classifiche di Forbes contano quelle dei «supercomputer» (il più veloce è ormai cinese) e il crescente scarto tra le modernissime infrastrutture asiatiche e quelle fatiscenti dell’ex Nuovo Mondo.
«E’ la prima volta da dieci anni a questa parte» nota Peter Beinart, ex direttore di New Republic, oggi animatore della progressista «New America Foundation», «che gli americani vanno a votare avendo più paura della Cina che di Al Qaeda».
Massimo Gaggi