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 2010  novembre 05 Venerdì calendario

Il Dalai Lama fa male all’economia - «Adesso i cinesi faranno sentire su di noi la loro rabbia», confidò allo Spiegel un imprenditore tedesco dopo che, nel settembre del 2007, Angela Merkel decise di aprire le porte della cancelleria di Berlino al Dalai Lama, rompendo con una tradizione che aveva accomunato tutti i suoi predecessori

Il Dalai Lama fa male all’economia - «Adesso i cinesi faranno sentire su di noi la loro rabbia», confidò allo Spiegel un imprenditore tedesco dopo che, nel settembre del 2007, Angela Merkel decise di aprire le porte della cancelleria di Berlino al Dalai Lama, rompendo con una tradizione che aveva accomunato tutti i suoi predecessori. L’anonimo imprenditore è stato lungimirante: in uno studio due economisti dell’università Georg-August di Gottinga hanno dato ora un nome alla «rabbia» da lui temuta. Si chiama «Effetto Dalai Lama» e si riassume in una frase: i Paesi i cui capi di Stato o di governo ricevono il leader spirituale tibetano assistono, nei due anni successivi all’incontro, a un calo del loro export verso la Cina. Una ritorsione che gli autori dell’indagine, Andreas Fuchs e Nils-Hendrik Klann, sono riusciti anche a quantificare, incrociando i dati Onu sulle esportazioni di 159 Paesi tra 1991 e 2008 con l’elenco dei viaggi effettuati nello stesso periodo dal leader tibetano: in media la riduzione dell’export verso la Cina è dell’8,1%. «Il Paese sembra sfruttare i rapporti commerciali come uno strumento di politica estera», notano Fuchs e Klann. Secondo i due ricercatori tale «Effetto» è molto recente. È infatti vero che Pechino reagisce ormai da decenni all’annuncio di una visita del Dalai Lama in una capitale straniera minacciando un raffreddamento delle relazioni economiche. Fu così, ad esempio, già nel 1989 con la Norvegia, dopo l’assegnazione del Nobel per la pace al capo spirituale tibetano. Eppure è soltanto negli ultimi anni che si è passati dalle parole ai fatti. Il deterioramento degli scambi in risposta a un colloquio ai massimi livelli col Dalai Lama esiste solo «nel periodo 2002-2008, nell’era di Hu Jintao», si legge nello studio. Tuttavia «ciò non ha che fare necessariamente con la persona di Hu Jintao, bensì con la crescente importanza economica e politica della Cina», chiarisce l’economista Andreas Fuchs. Considerando che il ruolo di Pechino sullo scacchiere internazionale è destinato ad aumentare, «in futuro tali punizioni cresceranno», ammette Fuchs. In realtà la stessa Cina sa che le ritorsioni, alla lunga, rischiano di rivelarsi un boomerang. Ecco perché i vertici comunisti sembrano aver elaborato una sottile strategia per evitare di finire vittime della propria politica. Anzitutto tali restrizioni non colpiscono tutti i settori economici, bensì riguardano soprattutto il commercio di macchinari e mezzi di trasporto. Le sanzioni, poi, scompaiono in media dopo due anni, e non soltanto per volere di Pechino: gli stessi partner che le subiscono esercitano una forte pressione per eliminarle, ricorda Fuchs. E infine le punizioni non scattano in modo indiscriminato: il commercio con la Cina cala solo se a incontrare il Dalai Lama è un capo di Stato o di governo, come Merkel nel 2007 o Sarkozy nel 2008, ma non se a riceverlo è un funzionario di secondo piano. Un dettaglio, quest’ultimo, che a Berlino avevano già intuito. Nel maggio del 2008, alcuni mesi dopo il faccia a faccia con Angela Merkel in cancelleria che provocò una crisi tra Germania e Cina, il Dalai Lama tornò a Berlino. Stavolta, però, né l’allora presidente Horst Köhler né Frau Merkel lo incontrarono, ufficialmente «per motivi di agenda». La soluzione che Fuchs propone, però, è un’altra: «Non vogliamo suggerire che i politici non debbano più vedere il Dalai Lama, semmai potrebbero coordinare i loro incontri con lui: in fondo la stessa Cina è dipendente dalle importazioni e non può mettere tutti i suoi partner l’uno contro l’altro».