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 2010  novembre 04 Giovedì calendario

IL GIOVANE RUBIO PUNTA ALLA CASA BIANCA

Ma è lui? È proprio lui il ragazzo che quei volponi dei repubblicani si stanno portando fin dentro al covo riconquistato di Washington?

Lui, Marco Rubio, quello che fino a qualche mese fa avevano messo sotto accusa perché andava in giro per mezza Miami a spendere e spandere con l´American Express del partito? Lui, quello che ora dice serafico «non pensate che questa sia una vittoria per i repubblicani»?
Sì, è lui, il figlio del barista di Cuba scappato a Miami, il bambino cresciuto tra le slot-machine di Las Vegas per seguire la mamma, l´avvocato belloccio che solo per invidia gli sconfitti adesso chiamano "combover kid", il ragazzo col riporto, il papà felice di quei quattro bambini che stanno venendo su una bellezza pure loro, del resto mamma Jeanette era la pon pon girl più carina dei Miami Dolphins.
L´America che verrà ha il sorriso di Marco Rubio che parla lingua biforcuta per natura: l´inglese per andare a Washington, lo spagnolo per passeggiare come un divo tra le villette di Calle Ocho, dove alla caffetteria Versailles i figli degli immigrati cubani come lui si vendono il suo tifo per un espresso, anche se poi magari Jorge fa un po´ di confusione e dice di «sperare che adesso faccia finalmente qualcosa per noi: magari con più sussidi di disoccupazione». Lui, Marco, che taglierebbe anche i lacci delle scarpe. Rubio lascia correre. La sua lingua è biforcuta anche politicamente: perché gioca tra destra e sinistra, anche se l´elezione da record la deve al vento dei Tea Party. Ma quando Sarah Palin è venuta a fare campagna quaggiù è sceso dal palco mentre lei saliva stando bene attento a non incrociarla. «Io sono, prima di tutto, un repubblicano», dice a chi gli chiede del movimento con cui ha schiacciato Charlie Crist, il governatore uscente che era, anche lui, repubblicano, ma ha tentato la carta dell´indipendente perché il partito aveva scelto SuperMarco.
Poi, appena incoronato, dice ache sarebbe un grande errore credere che questi risultati siano un riconoscimento per il partito repubblicano. Questi risultati sono la loro chance: la seconda chance per dimostrare di essere quelli che dicevano di essere neppure tanto tempo fa». Loro? Ma con chi sta Rubio?
La verità è che Marco Rubio ha il fisico del ruolo e un segreto inconfessabile: il suo modello si chiama Barack Obama. E forse è paradossalmente questo che lo avvicina di più al Grand Old Party. Non è un segreto che i repubblicani abbiano imparato la lezione del presidente nero e l´abbiano già attuata per stravincere a queste elezioni. Grande uso di Internet e mobilitazione dal basso. Andare all´attacco dell´avversario. Giocare a imporsi come outsider denunciando l´establishment. E´ la strategia che in una riunione segreta lo scorso autunno aveva messo in pratica l´uomo che John Bonheur, il nominando speaker della Camera, e il suo sodale Eric Cantor, il capo dei repubblicani alla Camera che aveva giurato la riscossa intorno a una bottiglia di vino nel suo rifugio in Virginia, avevano scelto per attrezzare la battaglia elettorale del Gop: Kevin McCounty, un simpaticone della California che ha salutato il trionfo dell´altra notte con "Feel like making love" dei Bad Company, che non sarebbe l´inno repubblicano che t´aspetteresti.
Questo è il nuovo Grand Old Party. Un partito che fino ai ieri l´unico leader che era riuscito a contrapporre a Barack Obama era il vecchio John McCain. E oggi sta allevando una generazione di simpatiche canaglie: Marco Rubio in testa.
Ieri a Miami non si parlava d´altro: i cartelloni con la scritta "Marco2010" sono ancora appesi ovunque e bagnati non dallo champagne della festa di Coral Gables ma dalla pioggia che preannuncia l´uragano Tomas in arrivo. Ma sulla blogosfera lo slogan che circola è Marco for President. Il primo endorsement c´è già. «Marco dovrebbe immediatamente pensare a correre per presidente: già nel 2012». Parola di Rudy Giuliani, uno che ha vissuto sulla propria pelle che cosa vuol dire non cogliere subito il fattore popolarità e correre invece coi tempi sbagliati. L´unico problema è come la mettiamo con i Tea Party. Eccola la questione che Bonheur e l´establishment devono affrontare. Ormai i Tea Party sono un partito nel partito.
E adesso? Rubio fa bene a giocare su due tavoli perché si è visto come le scelte radicali alla Sarah Palin abbiano fatto più male che bene al partito: i candidati estremisti non sono passati. Eppure il Tea Party è stata la forza di queste elezioni. Quattro su dieci hanno detto di aver votato per il Tè. Il partito nel partito che ha saputo convogliare la rabbia di quei nove cittadini su dieci che dicono di sentirsi minacciati dalla situazione economica. Quei quatto su dieci che vedono la loro situazione famigliare peggiorata da quando alla Casa Bianca c´è Barack Obama.
Le grandi manovre sono già cominciate. Sul Wall Street Journal di Rupert Murdoch ieri faceva capolino l´editoriale di un certo Jim DeMint. E´ un nome da tenere d´occhio. E´ stato lui, uno così intransigente sul deficit da aver bacchettato ai tempi perfino George W. Bush, ad aprire per primo le porte ai Tea Party. «Ora - dice - la battaglia è appena cominciata: dobbiamo prepararci a mettere i guantoni». Bohneur ha l´eloquio meno violento: non c´è niente da festeggiare, dobbiamo rimboccarci le maniche. Marco Rubio non dice nulla e sorride. Pensando a Washington.