Bianca Beccalli, Corriere della Sera 04/11/2010, 4 novembre 2010
LE BATTAGLIE DI TERESA NOCE E LE BRACCIANTI. LA LUNGA STORIA DELLE SINDACALISTE DONNE
Una donna alla guida della Cgil, uno dei più importanti sindacati europei, pone due interrogativi. Primo: com’è potuto avvenire? È stato il frutto di una combinazione casuale di forze e circostanze o di una lunga marcia in cui hanno giocato tradizioni culturali antiche e innovazioni organizzative recenti? Secondo: che differenza fa? Si limiterà Camusso a proseguire il lavoro di Epifani o introdurrà nell’azione sindacale temi legati alla sua sensibilità come donna e alla sua esperienza di militante femminista?
Non si è trattato di un evento casuale. Il mondo del sindacato è un mondo maschile, più di quello dell’impresa, della politica, della scienza, delle professioni. Anche se le donne sono state e sono una parte notevole dell’occupazione e dei lavoratori sindacalizzati, il vertice del sindacato è sempre stato largamente composto da uomini. E maschile è stato, fino ad anni recenti, il principale riferimento ai lavoratori rappresentati: i capi famiglia dell’industrializzazione di massa, di quella fase «fordista» sulla quale si è costruita la grande forza del sindacato italiano a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Nella tradizione della Cgil ci sono però sempre stati degli anticorpi. La stessa, antica, ambizione di rappresentare l’intero mondo del lavoro e non solo gli interessi dei lavoratori organizzati ha generato una apertura insolita a problemi di natura generale, l’aspirazione ad una società più egualitaria, più favorevole all’emancipazione dei suoi ceti più svantaggiati. Va nella stessa direzione la politicizzazione del sindacato, la sua vicinanza ai partiti politici della sinistra, ciò che spiega l’inconsueta presenza, nella storia della Cgil, di sindacalisti provenienti dalla politica e di intellettuali senza una esperienza diretta di lavoro di fabbrica (Vittorio Foa, Bruno Trentin). E spiega anche l’inconsueta presenza di figure femminili in ruoli direttivi.
Argentina Altobelli, un’intellettuale socialista, fu il capo della federazione nazionale dei lavoratori della terra dal 1906 sino all’avvento del fascismo — i braccianti erano allora la principale categoria sindacale — e altre donne istruite (le famose «maestrine socialiste») dirigevano alcune Camere del lavoro, la struttura portante del sindacalismo territoriale di quegli anni. Quasi mezzo secolo dopo Teresa Noce fu la segretaria del sindacato dei tessili, il più importante sindacato di categoria dell’immediato dopoguerra. Teresa Noce era politica e proletaria, non una borghese come la Altobelli — aveva fatto la «sartina» nella Torino del primo dopoguerra — e come politica, non come operaia tessile, si impegnò nel sindacato: «povera, brutta e comunista» dice di se stessa nella sua commovente autobiografia. Camusso è bella, borghese e socialista, ma è parte della stessa storia. Una storia nella quale si è inserito negli ultimi quarant’anni un filone importante, quello del femminismo, di cui Camusso è stata una delle protagoniste e da cui probabilmente è stata avvantaggiata: le quote femminili negli organi direttivi (per carità, non chiamiamole «quote rosa») sono state una cosa seria. Ma il suo impegno non si è limitato al sindacato: essa è stata una delle organizzatrici di «Usciamo dal silenzio», un’iniziativa che ha portato in piazza a Milano, all’inizio del 2006, duecentomila persone provenienti da tutto il Paese «per la libertà femminile», in difesa della legge 194 sul diritto di aborto. Di nuovo, si tratta di una miscela di professionismo sindacale e di azione politica a sostegno di diritti generali che è tipica della tradizione della Cgil.
Ma veniamo al secondo interrogativo. Una donna, in quanto donna, farà differenza? In passato l’ha fatta. Le battaglie di Teresa Noce nell’immediato dopoguerra, talora in contrasto con il capo carismatico della sua organizzazione, il grande Di Vittorio — per l’eguaglianza del punto di contingenza tra uomini e donne, per la parità salariale, e allo stesso tempo per il riconoscimento della differenza, per la protezione delle lavoratrici madri — sono ormai storia. Oggi i temi per i quali il gusto per l’eguaglianza può essere una bussola importante — le donne lo posseggono in modo spiccato, consce delle discriminazioni che continuano a subire — sono altrettanto evidenti di allora. Ed è ancora insoddisfacente, per usare un eufemismo, il riconoscimento delle esigenze delle lavoratrici madri, della difficile conciliazione tra il lavoro esterno e il lavoro di cura. La cosa più importante è che gusto per l’eguaglianza può essere stimolato dalla condizione femminile ma non si ferma lì. Molte donne fanno lavori precari e molte sono immigrate: ma i problemi della precarietà e dell’immigrazione non riguardano solo le donne e rappresentano una delle grandi sfide che il sindacato deve affrontare, se non vuole ridursi ad una rappresentanza degli insiders e dei pensionati. Una sfida, una difficoltà, ma anche una prospettiva, una nuova frontiera.
Poi ci sono i problemi di cui parlano giustamente i giornali. La gestione difficile di una gravissima situazione economica che erode le conquiste sindacali del passato: quali sono vantaggi acquisiti sui quali si può negoziare alla luce dell’emergenza e quali diritti sui quali non si transige? I conflitti tra i sindacati e i complessi rapporti con la politica, proprio in un momento in cui ci sarebbe bisogno della massima unità sindacale. Un disegno insoddisfacente delle relazioni industriali e l’annosa querelle sulla verifica della rappresentatività sindacale. E tanti altri ancora. Il gusto dell’eguaglianza ha il suo ruolo anche in questi problemi. Ma qui Susanna Camusso dovrà giocare non come donna, ma come leader.
Bianca Beccalli