Massimo Gaggi, Corriere della Sera 04/11/2010; Guido Olimpio, ib.; A. Far., ib., Aldo Cazzullo, ib., 4 novembre 2010
4 articoli – OBAMA SI SCUSA: «HO IMPARATO LA LEZIONE» — «Una batosta, un risultato che mi rende triste e mi spinge a vedere le cose con umiltà»
4 articoli – OBAMA SI SCUSA: «HO IMPARATO LA LEZIONE» — «Una batosta, un risultato che mi rende triste e mi spinge a vedere le cose con umiltà». Un Barack Obama cupo, ma pronto a rispondere anche alle domande più dure si è presentato ieri davanti alla stampa per analizzare il voto senza minimizzare la sconfitta. Certo, non avrebbe potuto: al di là della dimensione dell’avanzata dei repubblicani, il presidente registra una sfilza di smacchi personali e di sconfitte «strategiche» in vista della battaglia del 2012 per la Casa Bianca. Tra i candidati battuti ci sono anche i «giovani leoni» per i quali il presidente si era speso in prima persona, da Tom Perriello in Virginia ad Alexi Giannoulias che, all’inizio della campagna, veniva dato per sicuro erede di Obama nel suo seggio senatoriale dell’Illinois. Nella generale avanzata della destra, poi, i repubblicani hanno ottenuto anche i governatori di Ohio, Pennsylvania e Florida: tre Stati chiave che erano stati riconquistati nel 2008 da Obama, che proprio lì aveva costruito la sua vittoria. Nel 2012 saranno probabilmente questi i campi delle battaglie decisive. E affrontarle avendo i governatori dalla parte opposta della barricata sarà un ulteriore «handicap» per Obama. Che è comunque atteso, nei prossimi due anni, da una corsa tutta in salita. Ieri il presidente non ha nascosto la sue difficoltà e ha teso più volte la mano ai leader repubblicani, dicendosi disponibile al dialogo e alla ricerca di compromessi sui temi più diversi, dal Fisco alla politica energetica. Incalzato dai giornalisti che gli hanno chiesto se non avesse perso il contatto col Paese reale e se, col loro voto di martedì, gli americano hanno punito i democratici o non hanno voluto, piuttosto, respingere in blocco l’agenda del presidente, Obama ha riconosciuto di aver commesso molti errori, anche se si è detto convinto che la disfatta sia in gran parte legata alla crisi: la frustrazione degli americani per il negativo andamento dell’economia. «Abbiamo stabilizzato l’economia che, prima del mio arrivo, stava precipitando. Ma non è bastato. La gente vuole di più e ha ragione». Obama ha rilevato anche che non è la prima volta che un presidente eletto in una nuvola di fiducia e popolarità perde il suo fascino una volta che è imprigionato tra le mura della Casa Bianca: «E’ già successo a presidenti di grandi impatto mediatico come Ronald Reagan e Bill Clinton di subire una sconfitta cocente dopo i primi due anni di mandato». Ma poi Obama si è lasciato andare a una battuta molto umana con la quale ha fatto trasparire il suo vero stato d’animo: «Con questo non voglio mica dire che tutti i presidenti devono sottoporsi a una batosta («shellacking», un termine intraducibile che fa riferimento a una resina protettiva che viene spalmata sul le-gno), come quella che ho subito io stanotte: ci sono modi meno traumatici di imparare la lezione». Sforzandosi di guardare avanti, Obama ha fatto poi appello ai repubblicani perché, dopo averlo combattuto aspramente per due anni, collaborino col governo per definire i provvedimenti necessari nei campi in cui i due partiti hanno obiettivi comuni: «Non sono "naive", so bene che non sarà facile. Se in questo Paese ci sono due partiti è perché esistono due modi di concepire le cose che sono in competizione tra loro. Però dobbiamo provarci perché, sull’occupazione come sul rilancio del sistema produttivo e l’energia, la vera battaglia non è tra democratici e repubblicani ma tra Stati Uniti e potenze emergenti che, se non ci rimbocchiamo le maniche, conquisteranno sempre più spazio. Perché la Cina deve costruire ferrovie migliori delle nostre, Singapore aeroporti migliori dei nostri, mentre noi litighiamo?». Obama si è detto pronto a negoziare coi repubblicani sul Fisco (gli sgravi di Bush che scadono a fine anno) e non ha alzato le barricate nemmeno sulla riforma sanitaria, nonostante l’atteggiamento da «rottamatori» assunto dai leader della destra: la gente vuole essere curata meglio, discutiamo sulle correzioni possibili, ma avendo questo ben chiaro in mente. Il vero problema, per lui, rischia però di essere quello della dissoluzione della sua ricetta economica: aveva puntato sull’interventismo del governo per sostenere produzione e reddito in una fase di attività privata stagnante, ma da questo voto, più ancora che lui o i democratici, esce sconfitto il fantasma di Keynes. Massimo Gaggi PEGGIO DI CLINTON NEL 1994. VALANGA ROSSA ALLA CAMERA, SENATO «SALVO» DI UN SOFFIO — Il vento repubblicano, sospinto dal Tea Party, ha scompaginato le file democratiche. E come previsto il voto di medio termine si è tramutato in una dura sconfitta per Barack Obama. I risultati parziali dicono che i repubblicani conquistano una solida maggioranza alla Camera, 239 seggi, lasciandone 185 agli avversari (con 11 ancora da assegnare). Un incremento di quasi 58 punti che rappresenta il più grande spostamento di consensi dal 1994. Il rovescio da «costa a costa» è stato mitigato dall’esito per il Senato: qui i democratici, con 51 seggi, tengono la posizione ma i rivali si avvicinano con 47 senatori (3 i verdetti in sospeso). Un avamposto, il Senato, da dove cercare di ripartire per recuperare terreno. Anche se non sarà facile visto l’umore dei cittadini: secondo i sondaggi il 54% ha un giudizio negativo del presidente. E chi invece continua ad appoggiarlo questa volta magari non è andato a votare. Per la Cbs solo il 9 per cento dell’elettorato tra i 19 e i 29 anni lo ha fatto. Dalla lunga notte americana è uscito vivo politicamente Harry Reid, capogruppo democratico al Senato. Bersaglio di una martellante campagna dei repubblicani che avrebbero voluto mandarlo a casa ha mantenuto il suo seggio in Nevada. Conserva la poltrona Nancy Pelosi ma dovrà cedere la carica di speaker della Camera al sempre abbronzato John Boehner. Trionfo annunciato per Marco Rubio, presentatosi in Florida senza il sostegno dell’establishment repubblicano. Lo hanno votato 2 milioni e mezzo di persone. Una consacrazione che potrebbe rappresentare il trampolino per la corsa presidenziale del 2012. Offuscata la stella della battagliera Sarah Palin che aveva sponsorizzato, con il Tea Party, un buon numero di candidati: per ora solo 28 hanno fatto centro. A rischio il suo «cavallo» in Alaska, Joe Miller. Il ritorno dei repubblicani è ancora più significativo se si guarda anche al numero dei governatorati conquistati: 10. Ohio, Michigan, Kansas, Iowa, New Mexico, Pennsylvania, Oklahoma, Tennessee, Wisconsin, Wyoming. I democratici hanno invece strappato la California all’uscente Arnold «Terminator» Schwarzenegger, rimpiazzato da Jerry Brown, e hanno piegato con Andrew Cuomo il vulcanico Carl Paladino, uomo del Tea Party. Infine due ultime annotazioni dal taccuino elettorale. La California ha detto no alla legalizzazione della marijuana come hanno detto no i Navajo a Lynda Lovejoy che sognava di essere la prima donna presidente della tribù. Guido Olimpio CARLY E MEG NON SFONDANO. DEMOCRATICI PIGLIATUTTO NELLA CALIFORNIA DI SCHWARZY — La California ha resistito all’assedio e il Golden State si conferma, nell’era post-Schwarzenegger, il fortino democratico di sempre. Vince Jerry Brown, sbaragliando la ricchissima fondatrice di Ebay Meg Whitman, tornando così a sedersi alla scrivania di governatore che aveva già occupato fra il 1975 e il 1983. E trionfa la senatrice democratica Barbara Boxer che ha ottenuto il suo quarto mandato consecutivo staccando di dieci punti percentuali la repubblicana Carly Fiorina. Un en plein che dimostra come non sia sempre possibile «comperare» un’elezione. Sia la Whitman che la Fiorina, ex manager di successo in passato capo della Hewlett-Packard, avevano investito cifre da capogiro nelle rispettive campagne. 142 milioni di dollari la prima: un record. Ma i soldi non sono serviti. Forse perché più che di un duello tra partiti si è trattato di una gara di personalità dove la nonchalance, l’esperienza e nel caso di Brown persino l’età — 72 anni — hanno finito per essere punti a favore. Cathleen Decker del Los Angeles Times attribuisce la sua vittoria a «un misto di astuzia, fortuna e tempismo». «Brown ha vinto perché ha saputo cogliere il mood conservatore del paese», spiega. Diversamente dagli Anni 70 — quando, allora giovane liberal, voleva distanziarsi il più possibile dal padre — nella sua nuova campagna Brown ha reso omaggio al genitore morto nel 1986, Pat Brown, governatore della California dal 1959 al 1967. E agli anziani in generale. «Noi pensionati abbiamo un sacco di buone idee», ha detto arringando una folla di over 70 a Fresno. Sia lui che la Boxer sono riusciti a convincere l’elettorato che l’esperienza conta più dell’entusiasmo tipico degli outsider. «Con l’uscente governatore Schwarzenegger abbiamo avuto la prova di cosa succede quando si elegge qualcuno privo di background politico». Come Andrew Cuomo nello Stato di New York, anche Brown ha promesso «un ripulisti del governo centrale» e «linea dura» per debellare l’astronomico deficit che assilla lo Stato, patria delle star del cinema e roccaforte dei guru di Internet, che hanno tifato compatti per Brown e Boxer. «Abbiamo fronteggiato Karl Rove e abbiamo vinto. Abbiamo sfidato Sarah Palin e abbiamo vinto» ha detto la Boxer nel suo discorso di vittoria all’Hollywood Rennaisance Hotel. Giudicat a troppo conservatrice per l’elettorato californiano, la Fiorina non ha avuto la mini ma chance di vittoria. Forse, come afferma Dan Schur, presidente dell a Fair Polit i cal Practices Commission dello Stato ed ex consulente repubblicano, «i candidati più ricchi sono destinati a perdere perché sono troppo ambiziosi e vogliono cominciare dove anche un minimo errore può essere fatale». Unica consolazione per i conservatori è l’aver vinto il referendum sulla legalizzazione della marijuana. La «proposition 19» non ha avuto successo: la marijuana resta legale solo per scopi medici, ma non può essere commercializzata e consumata da chiunque. A. Far. ALABAMA, PER I BIANCHI E’ LA RIVINCITA: «L’AMERICA DOPO DUE ANNI RINSAVISCE» — «Non siamo più l’Alabama di Obama!». Si levano i boccali di birra, anche se sono solo le undici di mattina. «L’America può anche impazzire. Ma, dopo due anni, rinsavisce». Altri brindisi. Risate convulse. Grandi pacche sulle spalle. Il quartiere bianco di Birmingham, Alabama, profondo Sud, si è svegliato di buon umore, e lo resterà sino a sera. Due anni fa, qui al Five Points Grill — bistecche e burger —, infuriava una discussione sulla virilità del nuovo presidente. Gli avventori erano chiamati a esprimersi su due opzioni: minuscola, come sosteneva il partito dei sarcastici; o enorme, come proclamavano i più preoccupati. Vinsero i secondi. Oggi il clima è di sollievo e rivincita. Non occorreva Freud per spiegare quel miscuglio tra sentimenti di superiorità e timori di inferiorità che da secoli allontana i bianchi dai neri. E non occorre un politologo per capire come l’Alabama — Elebeeeme dicono al Five Points — non abbia mai accettato Obama come presidente. Sono in otto, attorno a un tavolino. Uno sta sempre zitto, gli amici lo prendono in giro per i tratti porcini, in effetti impressionanti. Ognuno degli altri ha una sua teoria. «Perché Obama non ha mai mostrato il certificato di nascita? Dice di essere nato alle Hawaii. Perché lo Stato delle Hawaii ha sbarrato l’anagrafe al resto del mondo?» (il governo locale ha voluto una legge che consente di ignorare le centinaia di richieste, giunte da tutti gli altri Stati, di consultare il certificato di nascita del presidente). «Come, non lo sai? Obama è il figlio naturale di Malcolm X, te lo dico io!». «Ma dai, se è nato quando quello era già morto!». «Che dici? Malcolm X, anzi Malcolm Little che era il suo vero nome, l’hanno ammazzato nel ’65, e Obama è del ’61. E sai dov’era Malcolm nel ’61? Era a Chicago, da Elijah Muhammad! E Obama non è di Chicago?». «Sì, ma c’è arrivato a vent’anni». Su un punto, comunque, sono tutti d’accordo: «Obama è musulmano. E socialista. Non è un vero americano. Stava preparando qualcosa: contro il capitalismo, contro la nazione. Per fortuna gli elettori hanno capito e l’hanno fermato in tempo». Dal gruppo si stacca un uomo elegante, con la camicia azzurra, la cravatta, i baffetti curati. Avverte l’esigenza di spiegarsi con lo straniero. «Vedi, amico, noi non consideriamo i neri inferiori, ma diversi. Loro non si muovono come noi, non parlano come noi, non pensano come noi. Noi amiamo il country, la melodia, e loro il rap, il ritmo. Noi mangiamo le bistecche, loro il pescegatto. Qui a Birmingham nessuno impedisce a neri e bianchi di vivere insieme. Eppure loro vivono tutti a Nord della ferrovia, e noi a Sud. Ci viene naturale, e nessuno si lamenta». E Obama? «Non è neppure nero. Non è dei loro, né dei nostri. Non capisce l’America, perché è un estraneo. Un "sissy", un fighetto. Peggio: un intellettuale, di quelli che confondono la realtà con i libri. Non ama il Sud e non lo conosce. Vorrebbe caricarci di colpe che non abbiamo. Non sente il Paese. Prendi la riforma sanitaria. La salute è come il cibo, come la casa: un bene; non un diritto. Se non hai cibo o non hai casa, lo Stato non te li regala. Sai quanti miei amici hanno perso la casa? Da noi funziona così, da sempre: chi arriva e lavora duro, potrà pagarsi l’assicurazione e le cure. Ma perché devo pagarle io a chi non lavora?». Al Five Points si festeggia non solo la sconfitta del presidente, ma soprattutto lo storico cambio al Congresso dell’Alabama: i repubblicani hanno conquistato la maggioranza per la prima volta dal 1874, dopo 136 anni di dominio democratico. Segno che tanti neri non sono andati a votare. Su sette collegi della Camera federale, in due c’era solo il candidato repubblicano. I democratici ne hanno vinto uno solo: con il 73%, Terri Sewell è la prima nera dell’Alabama a essere eletta a Washington. Fa l’avvocato a Birmingham ma è di Selma, la città del Bloody Sunday, dove domenica 7 marzo 1965 la polizia attaccò gli attivisti che marciavano per garantire ai neri il diritto di voto. L’Alabama è molto diverso da come viene pensato e rappresentato. Più che l’immagine oleografica del vecchio Sud — case bianche, terra riarsa, ritmi lenti — ricorda un Paese del Nord Europa, zitto e ordinato. Villette colorate, molto verde, traffico di motociclisti senza casco: la legge lo consente. L’economia non va così male, compresa l’industria dell’auto: Honda, Mercedes, Toyota e Hyundai hanno stabilimenti qui. I bianchi sono come ci si aspetterebbe i neri: calorosi, accoglienti, corpulenti. I neri sono silenziosi, composti, seri. Camminano radente ai muri. Parlano poco, anche perché oggi sono di pessimo umore. Ma pure due anni fa non si abbandonarono all’euforia per la vittoria di Obama. Qualcuno andò a festeggiare al Carver Theatre, dove suonò Duke Ellington, cui Malcolm X racconta nella sua Autobiografia di aver lustrato le scarpe. Qualcun altro all’Alabama Sport Hall of Fame, a rendere omaggio a Joe Louis — che qui visse sino a 12 anni per poi fuggire a Detroit dopo un alterco con il Ku Klux Klan — ea Jesse Owens, che a nove anni se ne andò in Ohio. La maggior parte si radunò a ringraziare il Signore nella Sixteenth Street Baptist Church, la chiesa neogotica dove il 15 settembre 1963 il Klan commise il suo delitto più odioso. Una bomba uccise quattro ragazzine: Carole Robertson, Cynthia Wesley e Addie Mae Collins avevano 14 anni, Denise McNair appena undici. In un’intercettazione telefonica Thomas Blanton, membro del Klan, raccontò tutto alla moglie, facendo anche i nomi dei tre complici. Edgar Hoover, capo dell’Fbi, disse di lasciar perdere. Otto anni prima, sempre in Alabama, Rosa Parks si era seduta su un bus in un posto riservato ai bianchi; fu arrestata; arrivò qui un giovane pastore, Martin Luther King, e invitò tutti i neri a sedersi nei posti riservati ai bianchi. L’intercettazione spuntò fuori dopo 35 anni. Blanton ebbe l’ergastolo nel 2001. La vetrata dell’abside è prodigiosamente intatta; il vento dell’esplosione ha però cancellato il volto di Gesù. Un artista gallese, bianco, ha donato alla Chiesa un Cristo in croce, nero. Di fronte al sagrato c’è l’ufficio reclutamento, che attende i figli dei poveri destinati all’Afghanistan. Davvero anche loro sentono Obama come un estraneo? Un bianco con la faccia scura, un africano che non discende da schiavi ma da un kenyota venuto a studiare a Harvard? La signora che guida i visitatori in chiesa assicura di no. «We love him. Siamo orgogliosi di lui. Ma Washington è lontana. Qui le elezioni si sa già come finiscono, e finiscono sempre allo stesso modo. Per Obama possiamo solo pregare, perché non gli accada mai nulla di brutto». Aldo Cazzullo