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 2010  novembre 04 Giovedì calendario

MA CHI ME L’HA FATTO FARE DI CRITICARE PURE UMBERTO ECO?

Non ho mai raggiunto tanta notorietà - nella mia modesta esperienza di collaboratrice di giornali - come dopo la recensione critica a Umberto Eco pubblicata sull’Osservatore Romano e ampliamente ripresa dal Riformista. Perfino la tv, addirittura un tg, se ne è occupata e questo, come ben si sa, è proprio il massimo. Non è che tutto ciò mi faccia molto piacere: ovviamente, avrei preferito diventare nota per miei meriti personali di maggior peso, e non per avere osato, temeraria donnetta, criticare l’uomo più potente della cultura italiana. Ma tant’è, faccio buon viso, come si dice e ne traggo spunto per farci sopra qualche riflessione.
Oltre alle risonanze pubbliche, ce ne sono state molte private - telefonate e mail - di giubilo perché ho osato toccare «quel trombone» (mi dispiace per Eco, ma assicuro che è il termine che ai più che non lo amano viene immediatamente sulle labbra: sarà forse un po’ colpa anche sua?). E poi non tanto perché ho sollevato il problema del possibile effetto antisemita della lettura del “Cimitero di Praga”, che evidentemente interessa solo gli ebrei, ma soprattutto perché ho scritto che il romanzo è brutto e noioso. Tutti i miei interlocutori non sembravano ansiosi di altro che di raccontare che odiano i romanzi di Eco, che sono noiosi e senza anima, che non sono neppure riusciti a finire “Il nome della rosa”, e via di questo passo. Naturalmente, tutto ciò obbliga a una domanda: ma allora perché Eco vende tanto? Perché i suoi libri continuano a essere successi indiscussi? E, di conseguenza, perché nessuno si è mai arrischiato a criticarlo, dicendo in pubblico le cose che dice in privato?
È evidente che per Eco è valida la sindrome così ben raccontata in una delle più belle favole di Andersen, “I vestiti dell’Imperatore”. Per chi non la ricordasse: un sarto va dall’imperatore, molto vanitoso, e gli dice che cucirà per lui vestiti meravigliosi, di una bellezza mai vista, ma che hanno la singolare caratteristica di poter essere visti solo dalle persone molto intelligenti. Da questo punto in poi, la favola prende un taglio grottesco: il sarto in realtà non cuce alcun abito pur affermando di rivestire l’imperatore di vesti magnifiche. Naturalmente, a cominciare dall’imperatore, nessuno vede i vestiti che non esistono, ma non osa dirlo per non sfigurare e finge di ammirare la sua eleganza nel corso di una passeggiata pubblica. Sarà solo un bambino ad avere il coraggio di dire: «L’imperatore è nudo!».
Lo stesso vale, probabilmente, per la ricca produzione libraria di Eco: tutti dicono di averlo letto, di averlo apprezzato, lo regalano - ho l’impressione che siano soprattutto libri regalati, più che libri letti - per fare e far fare ai destinatari del dono la figura di persone di qualità, à la page, ma non per altro. E in effetti i libri di Eco si prestano molto a questa funzione, dal momento che sono intessuti fin quasi allo spasimo di continui riferimenti storico-letterari, quasi che vogliano sfidare il lettore per vedere se capisce tutto, se è colto quanto lo è notoriamente l’autore. Naturalmente il lettore - nella stragrande maggioranza dei casi - perde la sfida, ma si sente culturalmente nobilitato per il solo fatto di esservi stato ammesso. E per esservi ammesso basta comprarlo. Una tentazione irresistibile, quindi.
Sarà per questo che nessuno osa criticarlo in pubblico? Perché noi italiani, così adusi al disconoscimento reciproco, con Eco ci sentiamo in soggezione? Conosco solo un precedente critico, ma un precedente che conta: Piergiorgio Bellocchio, sulla sua rivista Diario di recente ripubblicata da Quodlibet, scrisse nel 1986 una lunga, acuta e divertentissima critica non solo di Eco romanziere - allora era uscito solamente “Il nome della rosa” - ma anche di Eco saggista di costume. Bellocchio, comunque lo si voglia giudicare, è senza dubbio uno degli intellettuali più anticonformisti che l’Italia abbia prodotto, e lo conferma per l’appunto la sua audacia nell’osare di volgere uno sguardo critico non proprio benevolo al fenomeno Eco: «Ma ha poi senso - scrive - prendersela con un non-romanziere perché ha scritto un romanzo che m’ha annoiato a morte, e questo romanzo è diventato un best-seller? Non è mica il suo mestiere, quello di scrivere romanzi. Né il mio, quello di leggerli. E se si è montato la testa, bisogna capirlo, con tutto quel che hanno detto i critici. D’altra parte, come si fa a prendersela con l’idiozia dei critici? È il loro mestiere….».
Bellocchio avverte anche che non è prudente avventurarsi in una critica del romanziere-saggista perché si può cadere sotto i suoi strali: «Due le regole principali seguite dall’Eco polemista: riduzione al silenzio dell’avversario (pressoché assenti le citazioni testuali) e massiccia caricaturizzazione. Evitando l’indubbia fastidiosità della virgolettatura, Eco preferisce riformulare le posizioni con cui polemizza, ma scorciandole e svilendole al punto che il lettore più di una volta debba chiedersi, perplesso e imbarazzato, se valeva la pena, non dico confutare, ma perfino di prendere in considerazione simili scemenze».
Non so quali spiacevoli conseguenze abbiano colpito Bellocchio dopo il suo articolo, per ora aspetto con un po’ di curiosità - e naturalmente di timore - quelle che colpiranno me.