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 2010  novembre 04 Giovedì calendario

La Grande guerra vista da Gioacchino Volpe (+lettere) - La Grande Guerra, la Vittoria Mutilata, l’Inutile Massacro

La Grande guerra vista da Gioacchino Volpe (+lettere) - La Grande Guerra, la Vittoria Mutilata, l’Inutile Massacro. Eccola, la Prima Guerra Mon­diale, compimento sanguino­so del nostro Risorgimento, apoteosi catastrofica della nostra Unità che diventa, con la coscri­zione obbligatoria, unità popolare ol­tre che nazionale. Gioacchino Volpe (1876-1971) fu il principale storico del­­l’Italia in cammino, dal Medioevo alla Modernità, dal Risorgimento alla Pri­ma Guerra mondiale e poi al fascismo. Raccontò l’Italia in guerra e il popolo in armi, scrisse pure una storia degli italia­ni per i ragazzi. Ma Volpe non raccontò solo quella storia, la visse in prima per­sona, fu decorato con la Medaglia d’ar­gento e vi partecipò da ufficiale in bor­ghese e da storico militare, perché era ormai un accademico sulla quaranti­na. Quel che presentiamo in questa pa­gina, piccolo assaggio del suo vasto car­teggio, è il Volpe cronista, testimone e partecipe di quella stessa storia che poi scriverà da storico e accademico. Co­me accadde ad Erodoto, egli fu storico sul campo. C’è un carteggio fitto di lettere scritte alla famiglia dal fronte o dall’ufficio sto­riografico della Mobilitazione che mo­strano lo sguardo familiare con cui Vol­pe osserva quel che poi descriverà sul piano pubblico. Lettere tenere, a volte curiose, scritte con la calda umanità che contraddistinse la scrittura di Vol­pe. Lettere e cartoline che mi ha dato il suo pronipote Amedeo, indirizzate da Gioacchino a sua moglie Elisa Serpieri, spesso chiamata «cara bimba», o a suo figlio Nanni, che diventerà poi l’edito­re Giovanni Volpe, all’epoca poco più che bambino. Sono lettere autografe, a volte ricopiate da mano femminile o dattiloscritte nel retro di articoli volpia­ni. Lettere di un italiano che ama la sua patria anche quando è a casa, parla del suo paese natio Paganica e narra ai suoi bambini il fronte e le trincee. Sen­te di appartenere a un popolo, di condi­viderne la sorte e i sacrifici, immerso nella storia e nel destino del suo Paese. Un sobrio amor patrio, senza fanati­smi. Come fu la sua adesione al fascismo e la sua fedeltà alla monarchia, sottraen­dosi alla Rsi; per lui i regimi passano, l’Italia resta. E la sua passione di stori­co, temprata nello stile dal suo tiroci­nio nel giornalismo grazie ai suoi zii Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, a partire dal ruolo di correttore di bozze al Mattino di Napoli. Poi la cattedra, il sodalizio con Gentile, la sua critica al razzismo, la sua difesa di Ernesto Bona­iuti e dei fratelli Rosselli, i giudizi diffi­denti di Mussolini su di lui, e dopo la guerra la sua epurazione dall’universi­tà, il suo dignitoso riserbo e la sua coe­renza. Da storico capiva che non biso­gna lasciarsi assorbire nel presente, ma lasciar decantare i fatti. Avevo consultato i suoi carteggi ine­diti grazie ai suoi figli, Giovanni e Vitto­rio, e a sua nuora Elza. Pubblicai anni fa alcune sue missive, tra cui un conflit­to epistolare e giudiziario con Marinet­ti; inevitabile, uno si occupava, da stori­co, del passato e l’altro si eccitava, da poeta, per il futuro. Volpe concepiva la sua missione di storico a metà tra l’arte e la scienza, perché la storia, diceva con Labriola, è scienza del procedi­mento e arte della narrazione. Volpe fu lo storico della Nazione, amò il Risorgi­mento ma ricordò a Croce che l’Italia era nata molto prima della sua Unità. Alla vigilia dei 150 anni, merita di esse­re ricordato come la principale guida al nostro passato nazionale. L’Italia che fu - titolo di un suo libro uscito nel 1961 per i cent’anni dell’unità d’Italia ­non può dimenticare il suo Virgilio. Marcello Veneziani *** 21 gennaio 1918 Cara Elisa, sono sempre alla 3ª Armata, ancora per un paio di giorni, poi partenza per la 4ª. Rimarrei ancora se il mio tempo non fosse limitato. Qui si è a due passi dalla guerra e ogni piccola notizia di ciò che accade giunge ad ore e minuti di distanza.D’al­tra parte bisogna aggiungere che la guerra un po’ si rimpiccio­­lisce davanti ai nostri occhi. Con­versando non si parla della guer­ra grande ma del tale disertore, presentatosi in giornata, della ta­le batteria nemica scoperta, del tale aeroplano andato in ricogni­zione... Spinto dal desiderio di vi­s­itare la testa di ponte di Caposi­le, il punto più avanzato del no­stro fronte e campo dell’ultimo accanito combattimento. Viag­gio lungo e vario. Automobile, lancia a turbina, marcia a piedi fra gli acquitrini e fossati ... Era­no ancora visibili le tracce della battaglia, trincee sconvolte, el­metti ed armi disperse, dei buoi fulminati e lasciati lì per la fretta di mettere a difesa il terreno, un cadavere di soldato ungherese ancora insepolto... E in mezzo a tutto questo i vincitori bersaglie­ri e granatieri, quelli anziani, questi giovanissimi, lieti del cambio che la sera stessa avreb­bero avuto. Entro i cammina­menti ci spingemmo fino al­l’estremo limite, a 60 metri dal nemico. Ma senti subito questo: non mi spaventerebbe tanto al bisogno l’assalto e la battaglia quanto la vita in queste fosse. E sì che le nostre sono una cosa bella al confronto di quelle la­sciate dal nemico, vere tane da bestie, piene di ogni pensabile sudiceria. Ciò che spaventa è il pericolo che stando lì dentro si debbano affievolire le forze com­battive dell’uomo e l’animo poi non risponda all’appello quan­d­o si tratti di correre contro il ne­mico. Eppure si vede che anche alla trincea ci si abitua... Domenica sera, 9 novembre 1918 Cara bimba, è mezzanot­te. Torno ora dal co­mando, dove eravamo stati invitati per bere lo champagne in onore del gen. Ca­viglia, promosso comandante effettivo della 8ª armata. Fortu­na volle che ieri giungesse an­che la notizia dello sbarco a Trie­ste, della bandiera sventolante a Trento sul palazzo del buon Consiglio [...]. C’era una piccola orchestra che fu tutta un suona­re di inni, un grido di evviva, un canto di «va fuori straniero», «l’Italia s’è desta»,ecc.Tutti can­tavano in coro, in certi momenti anche S.E. il generale che pur se ne stava un po’ in disparte,silen­zioso, tutto raccolto in sé e nella sua commozione concentrata. Noi piccoli ufficiali borghesi ab­biamo dimenticato che qualche volta i nostri giudizi sui «pezzi grossi» militari non sono stati lu­singhieri, ed abbiamo in essi fe­steggiato i duci della vittoria. In tutti c’era la voglia,lo sforzo di raccogliere più che fosse pos­sibile questi giorni e queste ore. [...] Quel che noi abbiamo fatto nel palazzo del comando, gli al­tri hanno fatto altrove. Oggi son passati un migliaio di camions gremiti di soldati imberbi, pazzi di gioia. Andavano, si dice, ad imbarcarsi anche essi per Trie­ste. I più sono del 1900, e comin­ciano ora, in questa forma, a par­tecipare alla guerra che non è più guerra. Si è voluto che anche essi riportassero una impressio­ne v­iva e non cancellabile di que­sti giorni, da tener in serbo come riserva morale e patriottica per l’avvenire [...]. Mi fa pena che tu sia sola inquesti giorni, con l’in­cubo della febbre spagnuola vi­cino a te. È vero che hai Nanni che quasi mi sostituisce. Mi im­magino anche lui, al giungere di queste notizie! Forse non le di­menticherà facilmente! Gli man­do, qui accluso,un regalo:il pro­cl­ama del generale all’inizio del­l’offensiva [...]; un documento storico, specie se si sono vissuti i momenti in cui fu dettato e la passione e l’ansia di chi in quei momenti lo dettava. Adesso pubblichiamo un foglio con due pagine d’insieme da dare agli uf­ficiali. L’ho scrittoio,ma forselo firmerà S.E. Caviglia, per dare maggior solennità. Domani for­se vado a Belluno. Il tempo è ma­gnifico. I giorni scorsi minaccia­va guastarsi ma il 4 novembre un bellissimo sole risplendeva nel cielo. Neanche il bel tempo ci è mancato! La fortuna è stata con noi, questa volta. Addio, cara bimba, stai tu, sta­te tutti bene. Adesso la salute e la vita ci sono più care di ieri. I mor­ti u­ltimi ci lasciano un rammari­co più grande degli altri. Ieri sera ebbi notizia che in un ospedalet­to qui vicino era ricoverato un sergente di un reparto d’assalto, amputato di una gamba, dimo­stratosi sublime di fermezza e di coraggio durante l’operazione. Per questo e anche perché mio conterraneo, di un paese vicino a Paganica, andai a trovarlo, un uomo di oltre 30 anni. Mi han detto i medici che men­tre lo­amputavano ha gridato vi­va l’Italia, poi ha voluto vedere e toccare l’arto,dicendo: per l’Ita­lia si può dare una gamba e più ancora! Noi faremo avere alla sua famiglia un premio! Fai leggere a babbo le lettere. Così avrà anche lui qualche noti­zia viva di me e della fine della guerra. Si rallegrerà e insieme ri­penserà con do­lore al nostro sol­dato che anche noi abbiamo per­duto e non ha visto la vittoria. Ma solo i giorni più difficili della guerra. Il pensiero di tanti morti, tuttavia, non deve diminuire la gioia della vittoria, ma dare alle sue manifestazioni la gravità e la solennità che esige un fatto gran­de e tragico. Tante cose alla mamma, tanti baci ai bimbi, e a te, a te ancora, Tuo Gi.