Marcello Veneziani, il Giornale 4/11/2010, pagina 28, 4 novembre 2010
La Grande guerra vista da Gioacchino Volpe (+lettere) - La Grande Guerra, la Vittoria Mutilata, l’Inutile Massacro
La Grande guerra vista da Gioacchino Volpe (+lettere) - La Grande Guerra, la Vittoria Mutilata, l’Inutile Massacro. Eccola, la Prima Guerra Mondiale, compimento sanguinoso del nostro Risorgimento, apoteosi catastrofica della nostra Unità che diventa, con la coscrizione obbligatoria, unità popolare oltre che nazionale. Gioacchino Volpe (1876-1971) fu il principale storico dell’Italia in cammino, dal Medioevo alla Modernità, dal Risorgimento alla Prima Guerra mondiale e poi al fascismo. Raccontò l’Italia in guerra e il popolo in armi, scrisse pure una storia degli italiani per i ragazzi. Ma Volpe non raccontò solo quella storia, la visse in prima persona, fu decorato con la Medaglia d’argento e vi partecipò da ufficiale in borghese e da storico militare, perché era ormai un accademico sulla quarantina. Quel che presentiamo in questa pagina, piccolo assaggio del suo vasto carteggio, è il Volpe cronista, testimone e partecipe di quella stessa storia che poi scriverà da storico e accademico. Come accadde ad Erodoto, egli fu storico sul campo. C’è un carteggio fitto di lettere scritte alla famiglia dal fronte o dall’ufficio storiografico della Mobilitazione che mostrano lo sguardo familiare con cui Volpe osserva quel che poi descriverà sul piano pubblico. Lettere tenere, a volte curiose, scritte con la calda umanità che contraddistinse la scrittura di Volpe. Lettere e cartoline che mi ha dato il suo pronipote Amedeo, indirizzate da Gioacchino a sua moglie Elisa Serpieri, spesso chiamata «cara bimba», o a suo figlio Nanni, che diventerà poi l’editore Giovanni Volpe, all’epoca poco più che bambino. Sono lettere autografe, a volte ricopiate da mano femminile o dattiloscritte nel retro di articoli volpiani. Lettere di un italiano che ama la sua patria anche quando è a casa, parla del suo paese natio Paganica e narra ai suoi bambini il fronte e le trincee. Sente di appartenere a un popolo, di condividerne la sorte e i sacrifici, immerso nella storia e nel destino del suo Paese. Un sobrio amor patrio, senza fanatismi. Come fu la sua adesione al fascismo e la sua fedeltà alla monarchia, sottraendosi alla Rsi; per lui i regimi passano, l’Italia resta. E la sua passione di storico, temprata nello stile dal suo tirocinio nel giornalismo grazie ai suoi zii Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, a partire dal ruolo di correttore di bozze al Mattino di Napoli. Poi la cattedra, il sodalizio con Gentile, la sua critica al razzismo, la sua difesa di Ernesto Bonaiuti e dei fratelli Rosselli, i giudizi diffidenti di Mussolini su di lui, e dopo la guerra la sua epurazione dall’università, il suo dignitoso riserbo e la sua coerenza. Da storico capiva che non bisogna lasciarsi assorbire nel presente, ma lasciar decantare i fatti. Avevo consultato i suoi carteggi inediti grazie ai suoi figli, Giovanni e Vittorio, e a sua nuora Elza. Pubblicai anni fa alcune sue missive, tra cui un conflitto epistolare e giudiziario con Marinetti; inevitabile, uno si occupava, da storico, del passato e l’altro si eccitava, da poeta, per il futuro. Volpe concepiva la sua missione di storico a metà tra l’arte e la scienza, perché la storia, diceva con Labriola, è scienza del procedimento e arte della narrazione. Volpe fu lo storico della Nazione, amò il Risorgimento ma ricordò a Croce che l’Italia era nata molto prima della sua Unità. Alla vigilia dei 150 anni, merita di essere ricordato come la principale guida al nostro passato nazionale. L’Italia che fu - titolo di un suo libro uscito nel 1961 per i cent’anni dell’unità d’Italia non può dimenticare il suo Virgilio. Marcello Veneziani *** 21 gennaio 1918 Cara Elisa, sono sempre alla 3ª Armata, ancora per un paio di giorni, poi partenza per la 4ª. Rimarrei ancora se il mio tempo non fosse limitato. Qui si è a due passi dalla guerra e ogni piccola notizia di ciò che accade giunge ad ore e minuti di distanza.D’altra parte bisogna aggiungere che la guerra un po’ si rimpicciolisce davanti ai nostri occhi. Conversando non si parla della guerra grande ma del tale disertore, presentatosi in giornata, della tale batteria nemica scoperta, del tale aeroplano andato in ricognizione... Spinto dal desiderio di visitare la testa di ponte di Caposile, il punto più avanzato del nostro fronte e campo dell’ultimo accanito combattimento. Viaggio lungo e vario. Automobile, lancia a turbina, marcia a piedi fra gli acquitrini e fossati ... Erano ancora visibili le tracce della battaglia, trincee sconvolte, elmetti ed armi disperse, dei buoi fulminati e lasciati lì per la fretta di mettere a difesa il terreno, un cadavere di soldato ungherese ancora insepolto... E in mezzo a tutto questo i vincitori bersaglieri e granatieri, quelli anziani, questi giovanissimi, lieti del cambio che la sera stessa avrebbero avuto. Entro i camminamenti ci spingemmo fino all’estremo limite, a 60 metri dal nemico. Ma senti subito questo: non mi spaventerebbe tanto al bisogno l’assalto e la battaglia quanto la vita in queste fosse. E sì che le nostre sono una cosa bella al confronto di quelle lasciate dal nemico, vere tane da bestie, piene di ogni pensabile sudiceria. Ciò che spaventa è il pericolo che stando lì dentro si debbano affievolire le forze combattive dell’uomo e l’animo poi non risponda all’appello quando si tratti di correre contro il nemico. Eppure si vede che anche alla trincea ci si abitua... Domenica sera, 9 novembre 1918 Cara bimba, è mezzanotte. Torno ora dal comando, dove eravamo stati invitati per bere lo champagne in onore del gen. Caviglia, promosso comandante effettivo della 8ª armata. Fortuna volle che ieri giungesse anche la notizia dello sbarco a Trieste, della bandiera sventolante a Trento sul palazzo del buon Consiglio [...]. C’era una piccola orchestra che fu tutta un suonare di inni, un grido di evviva, un canto di «va fuori straniero», «l’Italia s’è desta»,ecc.Tutti cantavano in coro, in certi momenti anche S.E. il generale che pur se ne stava un po’ in disparte,silenzioso, tutto raccolto in sé e nella sua commozione concentrata. Noi piccoli ufficiali borghesi abbiamo dimenticato che qualche volta i nostri giudizi sui «pezzi grossi» militari non sono stati lusinghieri, ed abbiamo in essi festeggiato i duci della vittoria. In tutti c’era la voglia,lo sforzo di raccogliere più che fosse possibile questi giorni e queste ore. [...] Quel che noi abbiamo fatto nel palazzo del comando, gli altri hanno fatto altrove. Oggi son passati un migliaio di camions gremiti di soldati imberbi, pazzi di gioia. Andavano, si dice, ad imbarcarsi anche essi per Trieste. I più sono del 1900, e cominciano ora, in questa forma, a partecipare alla guerra che non è più guerra. Si è voluto che anche essi riportassero una impressione viva e non cancellabile di questi giorni, da tener in serbo come riserva morale e patriottica per l’avvenire [...]. Mi fa pena che tu sia sola inquesti giorni, con l’incubo della febbre spagnuola vicino a te. È vero che hai Nanni che quasi mi sostituisce. Mi immagino anche lui, al giungere di queste notizie! Forse non le dimenticherà facilmente! Gli mando, qui accluso,un regalo:il proclama del generale all’inizio dell’offensiva [...]; un documento storico, specie se si sono vissuti i momenti in cui fu dettato e la passione e l’ansia di chi in quei momenti lo dettava. Adesso pubblichiamo un foglio con due pagine d’insieme da dare agli ufficiali. L’ho scrittoio,ma forselo firmerà S.E. Caviglia, per dare maggior solennità. Domani forse vado a Belluno. Il tempo è magnifico. I giorni scorsi minacciava guastarsi ma il 4 novembre un bellissimo sole risplendeva nel cielo. Neanche il bel tempo ci è mancato! La fortuna è stata con noi, questa volta. Addio, cara bimba, stai tu, state tutti bene. Adesso la salute e la vita ci sono più care di ieri. I morti ultimi ci lasciano un rammarico più grande degli altri. Ieri sera ebbi notizia che in un ospedaletto qui vicino era ricoverato un sergente di un reparto d’assalto, amputato di una gamba, dimostratosi sublime di fermezza e di coraggio durante l’operazione. Per questo e anche perché mio conterraneo, di un paese vicino a Paganica, andai a trovarlo, un uomo di oltre 30 anni. Mi han detto i medici che mentre loamputavano ha gridato viva l’Italia, poi ha voluto vedere e toccare l’arto,dicendo: per l’Italia si può dare una gamba e più ancora! Noi faremo avere alla sua famiglia un premio! Fai leggere a babbo le lettere. Così avrà anche lui qualche notizia viva di me e della fine della guerra. Si rallegrerà e insieme ripenserà con dolore al nostro soldato che anche noi abbiamo perduto e non ha visto la vittoria. Ma solo i giorni più difficili della guerra. Il pensiero di tanti morti, tuttavia, non deve diminuire la gioia della vittoria, ma dare alle sue manifestazioni la gravità e la solennità che esige un fatto grande e tragico. Tante cose alla mamma, tanti baci ai bimbi, e a te, a te ancora, Tuo Gi.