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 2010  ottobre 30 Sabato calendario

IL «MACCARTISMO ITALIANO» È SOLTANTO UN’IPERBOLE

Ricordo che una decina di anni fa, su questa stessa rubrica, un lettore aveva chiesto a Indro Montanelli se l’avvento delle nuove forze politiche di centrodestra avrebbe scatenato episodi di maccartismo anche nel nostro Paese; questi aveva risposto, più o meno, che questo si sarebbe potuto verificare solo in un Paese più serio del nostro. Non pensa che gli ultimi fatti, e non solo, abbiano dimostrato che è vero il contrario?
Antonio Lupi
antonio.lupi@istruzione.it
Caro Lupi, chi parla di «maccartismo italiano» non conosce o non ricorda probabilmente né la figura del senatore Joseph McCarthy né la storia della sua rapida ascesa e del suo brusco declino nella politica americana fra il 1950 e il 1954.
Nacque nel 1908 in una fattoria agricola del Wisconsin, fece studi di legge in una piccola università dello Stato, cominciò a militare per il partito repubblicano e fu eletto alla magistratura nel 1939, ma si arruolò nel corpo dei marines e tornò alla carriera politica solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1947, quando presentò la sua candidatura a uno dei due seggi senatoriali del Wisconsin, aveva già 39 anni, una limitata esperienza politica e per di più doveva sostituire uno dei più rispettati patriarchi del partito repubblicano nell’immensa regione dei Grandi Laghi. Ma era un veterano di guerra, un volto nuovo della politica e distribuiva ai suoi concittadini, durante la campagna elettorale, gli sperticati elogi con cui alcuni generali avevano descritto il suo impegno e il suo coraggio durante il conflitto. Risultò poi che quei documenti erano stati in buona parte taroccati, ma McCarthy, nel frattempo, era stato eletto e si era seduto sul suo scranno senatoriale agli inizi del 1948.
Impiegò i primi due anni del mandato a imparare il mestiere, più o meno diligentemente. Ma nel febbraio 1950, in occasione di un discorso alle donne repubblicane dello Stato della Virginia occidentale, disse: «Il Dipartimento di Stato è infestato di comunisti. Ho qui una lista di 205 persone denunciate al Segretario di Stato come membri del partito comunista e tuttora impegnate nel loro lavoro». L’affermazione provocò un grande scalpore e fu l’inizio di una campagna di calunnie che avrebbe suscitato la divertita ammirazione di Goebbels. Per McCarthy il comunismo aveva infettato l’America e ne stava distruggendo la fibra morale. Erano comunisti i suoi avversari politici. Erano comunisti i diplomatici e i giornalisti. Era filo-comunista e complice del pericolo rosso persino il generale George Marshall, ex segretario di Stato e autore del grande piano per la ricostruzione economica dell’Europa che porta il suo nome. Erano comunisti, infine, i registi e gli sceneggiatori di Hollywood, tutti sospetti colpevoli di avere iniettato per molti anni il veleno della ideologia bolscevica nelle vene della nazione. Qualcuno di essi, in effetti, aveva partecipato ad alcune assemblee del partito e ne era divenuto membro; ma negli anni in cui l’Urss e gli Stati Uniti erano alleati contro la Germania nazista. Vi erano, senza dubbio, in una parte della intelligencija americana, sentimenti di nostalgia per quella fase storica, ma il fenomeno era assai più modesto di quanto risultasse dalle apocalittiche denunce di McCarthy.
Per molto tempo la classe politica ebbe paura di lui. I suoi numerosi critici avrebbero voluto metterlo a tacere, ma non potevano ignorare che il senatore del Wisconsin aveva conquistato la simpatia delle comunità cattoliche ed era in perfetta sintonia con quel populismo radicale che rialza la testa periodicamente nelle acque più torbide della politica americana. Alla fine, tuttavia, prevalsero la stanchezza e il buon senso. Nel 1954 il Senato sfiduciò McCarthy con una mozione che denunciava «comportamenti incompatibili con la sua carica». Morì tre anni dopo di cirrosi epatica. Era sempre stato un grande bevitore e negli ultimi anni della sua vita aveva troppo spesso, a quanto pare, superato la soglia della sobrietà.
Come vede, caro Lupi, il maccartismo è un fenomeno molto americano e molto collegato con il particolare clima della guerra fredda. Applicarlo alla situazione italiana è soltanto una iperbole, vale a dire una di quelle esagerazioni a cui siamo, in Italia, particolarmente inclini.
Sergio Romano