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 2010  novembre 03 Mercoledì calendario

WI-FI, L’ITALIA È INDIETRO, PER VOCE ARANCIO


Scena comune un po’ in tutto il mondo: lo studente (ma anche il professionista di passaggio) entra in un locale, prende un caffè, apre il suo pc portatile, lo aggancia alla connessione wireless (wi-fi) offerta dal gestore e naviga su internet. Oppure, se la giornata è bella, si siede su una panchina di un parco, nei pressi della quale c’è un trasmettitore pagato dal comune, per leggere la sua mail o aggiornare il suo profilo Facebook. Il più delle volte gratis.

Un McDonald’s a Parigi, uno Starbucks a Berlino, ma anche un piccolo bar di Londra. Sono tutte isole di connessione wireless. I proprietari installano un access point, non molto diverso da quello che ormai arriva nelle case con un abbonamento Adsl, e offrono connettività internet a tutti i clienti. Non riguarda solo i pc portatili o i netbook: la stragrande maggioranza degli smartphone attuali supporta i protocolli di connessione wi-fi.

I proprietari dei locali non lo fanno per beneficenza. Una ricerca commissionata dall’azienda Usa In-stat ha dimostrato che i clienti aumentano se si offre loro una connessione wi-fi. Il 95% degli intervistati ha dichiarato che la presenza o meno di un punto di connessione (hotspot) all’interno di un ristorante o di un bar influenza la loro scelta già adesso o potrebbe farlo in futuro. La stessa ricerca prevede che entro il 2014 le connessioni a internet attraverso hotspot raggiungeranno i due miliardi di sessioni su scala mondiale.

Non è solo una questione di comodità quando si è fuori casa. In tempi di crisi economica, gli hotspot pubblici stanno rappresentando una valida alternativa per tutti quelli che non possono permettersi una connessione internet a pagamento. E tutti gli analisti del settore lo vedono come un modo semplice ed efficace per combattere il cosiddetto digital divide.

L’Italia è un caso a parte. Il cosiddetto decreto Pisanu, varato nel luglio 2005 su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno, in seguito agli attentati terroristici di Madrid e Londra, prevede che chiunque voglia offrire connessioni internet pubbliche debba richiedere una licenza al questore e, soprattutto, identificare tutti gli utenti. Il cliente, in pratica, deve dare la sua carta di identità al gestore, che la fotocopia e tiene un registro. Solo allora si può navigare.

Il risultato di questo meccanismo piuttosto complicato era prevedibile. Gestori di locali pubblici, direttori di musei e centri culturali, le stesse amministrazioni comunali, devono sobbarcarsi un grosso lavoro burocratico se vogliono offrire un hotspot. E gli utenti non gradiscono il fastidio di dover dare la propria carta di identità, aspettare la registrazione, ricevere un codice e finalmente poter aprire il portatile. Così in Italia esistono appena poco più di quattromila punti di accesso pubblici, mentre la Francia ne ha oltre 30mila, la Gran Bretagna circa 28 mila, la Svezia 7.700 nonostante una popolazione molto inferiore. Nel nostro Paese l’uso del wi-fi è praticamente sconosciuto, e tutti corrono dietro alle chiavette Umts rischiando di intasare la rete cellulare.

«È il più classico dei problemi di Bauman: più sicurezza o più libertà? Il sostenitori del wi-fi libero fanno notare che siamo l’unico Paese che prevede forme così strette di controllo. Né Stati Uniti, né Israele hanno una tale burocrazia. Anche se gli esperti fanno notare che diversi casi di criminalità informatica e pedopornografia sono stati risolti grazie ai paletti imposti dal decreto Pisanu» (Massimo Sideri sul Corriere della Sera).

Da destra a sinistra, uno schieramento politico trasversale invoca l’abrogazione del decreto di fronte ai continui rinnovi che di anno in anno l’hanno mantenuto in vita. Ci si è andati vicino la settimana scorsa, quando il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta aveva annunciato che nel Consiglio dei ministri di venerdì si sarebbe discusso della sua abolizione. All’ordine del giorno però l’argomento non c’era. Al suo posto, un dossier stilato dall’attuale ministro dell’Interno Roberto Maroni in cui si propongono solo modifiche. L’idea attualmente più quotata è questa: l’esercizio pubblico che volesse offrire un hotspot dovrà ancora identificare i clienti. L’unico vantaggio è la scomparsa della carta di identità. L’identificazione avverrà con il cellulare attraverso un sms.

Chiedere la connessione, dare il proprio numero di telefono, aspettare l’sms di conferma con il codice di accesso. Qualche minuto. Ma sufficiente per mantenere una specie di gabbia, un meccanismo comunque fastidioso per utenti e gestori, che continuerà a tenere bassissimi i numeri italiani in questo tipo di connettività. E comunque il decreto Pisanu non lo vietava, tanto è vero che alcune amministrazioni pubbliche, come la Provincia di Roma, e anche alcuni privati lo stanno già usando da tempo. Rimane una limitazione di fondo alla libertà di internet.

Ma se in Italia, almeno stando alle dichiarazioni pubbliche di molti esponenti politici, è prevedibile che in un modo o nell’altro gli hotspot finiranno per essere liberati, le cose si stanno facendo paradossalmente più complicate in altri Paesi. In Olanda si sta discutendo una legge che obbligherebbe chi offre connettività wireless a registrarsi come internet provider a tutti gli effetti, praticamente come una compagnia telefonica. Questo costringerebbe i locali pubblici a tenere traccia dei dati personali dei clienti. Le motivazioni sono anche in questo caso di sicurezza e antiterrorismo. Ma tra ricorsi e proteste, il destino di questa norma è tutt’altro che sicuro.

Il caso della Gran Bretagna. Il Digital Economy Bill prevede che anche librerie, università e altri fornitori di connettività wi-fi dovranno registrarsi come internet provider e saranno obbligati a registrare i dati degli utenti. Qui però non è in gioco la sicurezza, ma lo scarico illegale di musica e film. La norma, infatti, è rivolta a stroncare la pirateria.

Non bisogna peraltro mai dimenticare che in giro per l’Italia, come nel resto del mondo, esistono migliaia di hotspot gratuiti che non hanno bisogno di alcuna registrazione. Sono le nostre case. Il router wireless che arriva con la connessione Adsl è comodo, ma è anche una porta aperta verso chiunque abiti vicino o passi con uno smartphone sotto le nostre finestre. Cento metri è la distanza ufficiale alla quale può arrivare un segnale wireless.

La signora tedesca che si era scordata di spegnere il router quando è andata in vacanza. Qualcuno si è collegato al suo wireless domestico e ha scaricato valanghe di canzoni. Risultato: una multa di cento euro perché la donna non aveva protetto abbastanza la sua rete.

La rete wi-fi di casa può essere protetta con pochi accorgimenti. Prima di tutto adottando una criptazione adeguata. Meglio lasciare perdere il vecchio sistema Wep, facile da penetrare. Il Wpa-tkip con le sue varianti è molto più solido, ed è presente in tutti i router attualmente in commercio. Basta ricordarsi di implementarlo (se non l’ha già fatto l’azienda, cosa sempre più diffusa proprio per aiutare i pigri). Poi il router può essere istruito a far collegare solo determinati computer, riconoscendoli attraverso il loro Mac address. Una mezz’ora di tempo perso per evitare problemi anche legali.