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 2010  novembre 03 Mercoledì calendario

Il processo che brancola nel buio - Come in un processo kafkiano, la Giustizia non ha mai pietà. Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni sono due italiani arrestati in India per l’omicidio di un altro italiano - Francesco Montis -, che forse non hanno commesso ma che non potranno mai dimostrare di non aver compiuto

Il processo che brancola nel buio - Come in un processo kafkiano, la Giustizia non ha mai pietà. Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni sono due italiani arrestati in India per l’omicidio di un altro italiano - Francesco Montis -, che forse non hanno commesso ma che non potranno mai dimostrare di non aver compiuto. Il cadavere non c’è più: l’hanno fatto bruciare gli inquirenti. E pure il processo non c’è: è una sfilza di udienze rinviate, di risposte mancate, di interrogatori perduti. Tutto cominciò il 4 febbraio del 2010. Tomaso Bruno, 26 anni, di Albenga, Elisabetta Boncompagni, 36, di Torino, e Francesco Montis, 31, di Terralba, erano arrivati insieme da 6 giorni all’hotel Buddha, periferia della città. Si erano conosciuti a Londra e avevano deciso di realizzare questo viaggio nel fascino sognante dell’India. Francesco ed Elisabetta sono fidanzati, ma lei scrive su facebook che la loro è «una coppia aperta». Quella mattina Francesco si sente male, e i due amici chiedono aiuto alla hall, poi lo fanno portare in ospedale. Lui muore. Una frettolosa autopsia stabilisce che sul corpo ci sono i segni di una colluttazione, sei lividi. Il vicecommissario Sageer Ahmad fa arrestare i due compagni di stanza: hanno ucciso l’amico per liberarsi di lui. A nulla serve la lettera della mamma di Francesco che scrive agli inquirenti per sostenere che suo figlio «era malato», che aveva problemi respiratori e che non è stato ucciso. Il commissario porta a riprova la testimonianza del padrone dell’albergo che giura di averli visti litigare la sera prima. Il padrone farà retromarcia in aula, ammettendo di non aver visto nessuno. Ma questa è già un’altra storia, quella di un processo che non esiste. L’avvocato Vibhu Shankar ha raccontato che quando ieri mattina il pubblico ministero ha chiesto in aula al cameriere dell’Hotel Buddha di Chentgani se riconosceva i due imputati, quello s’è sporto verso le candele che illuminavano fiocamente la grande sala buia dell’udienza e ha detto che pensava fossero loro, ma che così non riusciva a vederli bene. «Avvicinate gli imputati», ha ordinato il giudice. Le guardie si sono mosse quasi a tentoni nell’oscurità dell’androne, e le fiamme delle candele hanno tremolato ancora di più. Era l’ultimo, incredibile black out che ha colpito il grande tribunale di Varanasi, nell’Uttar Pradesh, India. Ma almeno questa volta il processo è andato avanti. Poco prima, il presidente aveva letto l’ordinanza della Corte Suprema che ordinava di «chiudere questa causa entro 3 mesi». Un’impresa quasi impossibile, se si pensa che in 7 mesi esatti le udienze, trascritte lentamente a mano da esausti cancellieri, sono saltate per le cause più disparate, dagli scioperi ai funerali, alle preghiere, alle feste. Un giorno il pm Hk Singh è arrivato con 3 ore di ritardo senza avvisare e quando s’è presentato il giudice ha deciso di rinviare l’udienza. Neanche i testimoni avvertono se sono malati: uno lo scopre all’interrogatorio, quando non ci sono. La prima udienza del processo era stata fissata all’inizio di aprile. Niente. Poi il 19: niente di nuovo. Il 23: il pm manco viene. Il cancelliere fissa una nuova data: 4 maggio. Questa volta è in ferie il giudice. Il collega che lo sostituisce chiede 10 giorni per leggere le carte. Si va a giovedì 13 maggio: per la prima volta i difensori possono parlare con i magistrati. Presentano una domanda di libertà che verrà poi respinta. Nel frattempo Sageer Ahmad ha disposto la cremazione della salma. La difesa vorrebbe avere dei riscontri sull’autopsia, perchè sia la mamma che la sorella della vittima continuano a ripetere che «non credono all’omicidio», che Francesco era sofferente da anni di dolori alla schiena. Sembra incredibile, ma non si può più: al posto degli accertamenti, solo delle foto. Tra un rinvio e l’altro, la prima udienza vera si svolge finalmente il 21 maggio. Quella successiva viene fissata il 7 giugno: sciopero degli avvocati di stato. Si va al 15 giugno: ma questa volta ci sono le feste religiose. Poi a luglio, ci sono in serie un temporale con il primo black out, ritardi vari per il troppo traffico e un’agitazione delle guardie. Agosto, lunedì 9: comincia l’interrogatorio del padrone dell’albergo, Ram Singh. L’udienza parte in ritardo di due ore, poi appena comincia c’è un altro temporale, e un altro black out. Tutti fermi, si va a giovedì 12 agosto. Il testimone si contraddice, corregge la sua versione («non è vero che li ha visti litigare, ma l’ha sentito raccontare»), e il suo interrogatorio si protrae per 10 udienze. Nel frattempo, altrettante ne saltano perché c’è una festa religiosa, perché lui si ammala, il giudice non può venire e un’altra volta pure perché è morto qualcuno di importante e bisogna andare tutti al suo funerale. Altri scioperi, poi, fino a ieri, quando c’è l’ennesimo black out e bisognerebbe rinviare tutto. Ma come si fa: se il processo è questo, si può continuare pure nel buio.