LEONETTA BENTIVOGLIO, la Repubblica 31/10/2010, 31 ottobre 2010
LAURIE ANDERSON
Geniale autrice di performance celebrate in tutto il mondo, l´americana Laurie Anderson ha sempre coltivato un sogno: quello d´invadere la nostra immaginazione con i suoi stessi sogni. Farci sognare insieme a lei, «perché trovo bellissimo», confessa con la sua voce ipnotica e piena di salti di toni, ora intimi ora cupi ora infantili, «volare nella propria testa mentre si dorme pescando nelle associazioni più incontrollate, fluttuando in mari di sonorità misteriose e cogliendo in libertà i riflessi della memoria. Dato che ogni notte dormo circa otto ore - mi piacerebbe che fossero quindici ma non me lo posso permettere - nel giorno del mio sessantatreesimo compleanno ho fatto un po´ di calcoli rendendomi conto che ho trascorso più di vent´anni a dormire. Dunque il mio io sognante è diventato una persona adulta e affidabile, che va festeggiata».
La materia stessa dei sogni sembra aver permeato questa strana creatura mossa da un estro originale che scansa ogni confine di linguaggio. Laurie è regista, attrice dei suoi show, violinista, cantante (che quasi parla quando canta, e quasi canta parlando), video-artista, compositrice, poetessa: «Però sul mio passaporto», dice, «appare un´unica parola: artista». Artista totale e radicalmente sperimentale, viene voglia di aggiungere. Che detesta i codici chiusi in se stessi e gioca a inventarne di propri, rendendo elastiche le barriere tra le arti. Grazie a questa sua curiosità implacabile di territori e strumenti, la Anderson s´infiltra da qualche buon decennio, con una tenuta formidabile nel tempo, nei sogni di spettatori di generazioni diverse, montando le sue cosmogonie ricche di suggestioni evocative: come United States I-IV, opera dell´84 di oltre sette ore sull´identità e la storia nordamericana, suddivisa in due serate e condensata in cinque dischi; come le avvolgenti creazioni multi-mediali di Empty Places (1990) e di The Nerve Bible (1995); o come la fosca epopea allegorica su Melville, Song and Stories of Moby Dick (1999-2000).
Potenti affreschi dinamici, attraversati in filigrana da rimandi filosofici e politici, nei quali Laurie convoglia tutto di sé: la sua vena di musicista plasmata dal minimalismo e dal rock, il suo culto della letteratura classica e del cinema di tradizione («i miei miti sono Balzac e Vittorio De Sica, straordinari raccontatori di storie»), la sua incessante esplorazione delle tecnologie applicate all´arte, il suo talento di artista visiva documentato da mostre antologiche (la più recente è stata a San Paolo del Brasile) ospitate dai massimi spazi espositivi del pianeta: «Mi piace raccogliere visioni e spunti dell´esistenza. Amo le cose vere e vissute, non rigide o etichettate. Narro l´impermanenza, la tensione, il movimento, i conflitti. Niente a che vedere con certe dimensioni frivole o "carine", congelate in una forma, che troppo spesso ci propongono i teatri e le gallerie d´arte. Diffido delle trame che finiscono in modo netto e risolto. La vita è terribilmente incasinata e io cerco di trasferire questa complessità nel mio lavoro».
Nata a Chicago nel 1947 e trasferitasi a New York negli anni Settanta, Laurie ha vissuto intensamente la stagione più leggendaria delle avanguardie newyorchesi, «quando tra gli artisti vigeva una situazione fertile di scambi. I grandi ideali libertari e comunitari degli anni Sessanta erano ancora ossigeno per noi. Avevo amici come il musicista Philip Glass, la danzatrice Trisha Brown e lo scultore Gordon Matta Clark. Non c´era alcuna possibilità di fare soldi con l´arte. Eravamo pazzi, generosi e privi di senso pratico. Facevamo le nostre opere per puro piacere, con forte autocoscienza, determinazione e fiducia nel futuro». In quell´ambiente impregnato dalla pop art, dall´indeterminatezza musicale di John Cage, dalla Beat Poetry di Ginsberg, Burroughs e Kerouac, dall´immaginario di pittori come Max Rothko e Jackson Pollock, la giovane Laurie sbarcò avida di stimoli e colma di un´infanzia ricca di natura e affetti: «Sono cresciuta tra boschi e laghi, vicino a Chicago. Ero la seconda di otto figli, sembravamo un esercito. Si pescava, si pattinava, giocavamo in mezzo agli alberi. Mia madre, che dipingeva e suonava, voleva che ognuno studiasse uno strumento musicale, e io scelsi il violino. Formavamo una piccola orchestra e il nostro pubblico era mio padre. Non avevamo il permesso di guardare la televisione, per cui inventavamo di continuo i nostri giochi, montavamo piccoli spettacoli e disegnavamo. Nessuno mi ha mai chiesto quale mestiere avrei voluto fare da grande, perciò non ho mai deciso, e in verità non lo so bene neanche adesso, nel senso che mi lascio aperte delle opzioni. Ricordo che m´interessavano la chimica e la medicina, ma anche l´astrofisica e la filosofia».
Spiega che nei tumultuosi anni Settanta uno dei suoi massimi obiettivi era identificare un altro stato mentale «per diventare più sensibile alle cose. Con lo scultore Sol LeWitt, per esempio, andavo spesso ad assistere alle prove di Glass, che suonava anche per dieci ore di seguito un organo a un volume pazzesco. Ce ne stavamo giornate intere stesi sul pavimento immergendoci in quel suono folle, e Sol diceva: "Qui alle prove di Phil mi vengono le idee migliori per il mio lavoro". La consideravamo una maniera di "resettare" la nostra mente».
A differenza di vari artisti americani suoi coetanei marchiati dagli eccessi, come il campione rock Lou Reed, da qualche anno suo compagno nella vita, che reca in volto i segni di ogni passata trasgressione, o come la cantante e poetessa Patti Smith, col suo lugubre aspetto stregonesco, Laurie non ha perduto la freschezza del suo appeal androgino e lunare. Fisico da ragazzo, capelli corti a raggiera, faccia ironica e vaga, non si capisce se innocente o pronta a tutto («sembra Susanna Tamaro incrociata con Mick Jagger», scrisse di lei Alessandro Baricco), ha ancora la presenza da menestrello fantascientifico che ammaliò le platee anni Ottanta, quando spiccava, eroina minuta e solitaria, in certi sterminati palcoscenici high-tech, pronta a incantarci con la sua voce marziana e il suo sensuale duettare col violino, «che è un mio surrogato, un modo di dire "io", la marionetta del ventriloquo, capace di piangere, lamentarsi e cantare mentre parlo. Abbiamo una profonda partnership, per me è un alter ego».
Laurie scalò velocemente i vertici del successo a partire dall´esito commerciale clamoroso, nel 1981, del suo singolo O Superman, che dominò a lungo le classifiche britanniche: «Prima di allora ero una snob, e come altri artisti di quegli anni credevo che ottenere il consenso, in ambito culturale, fosse sintomo di idiozia. Avevo confezionato il disco in modo artigianale, spendendo cinquecento dollari, e lo misi in vendita tramite ordini postali che mi arrivavano a casa. Chiunque, da ogni parte degli Stati Uniti, poteva chiamarmi al telefono e dirmi: voglio una copia; io andavo all´ufficio postale a spedire un pacchetto a quell´unica persona. Un giorno mi chiama una stazione radiofonica da Londra ordinandomi ottantamila copie. Ero costernata, non sapevo come fare. Decisi di chiedere aiuto ai produttori della Warner Brothers, che seguivano da tempo i miei show e volevano produrmi un disco. Solo a quel punto mi convinsi a firmare un contratto».
La sua ultima creazione, Delusion, già acclamata in Canada, negli Stati Uniti e a Londra, sarà presto in Italia, prima a Firenze, il 13 novembre al Centro d´Arte Contemporanea EX3, poi il 2 dicembre a Roma, per il festival Romaeuropa in collaborazione con Santa Cecilia, che la accoglie nell´immensa sala dell´Auditorium Parco della Musica. Suoni, visioni, pensieri, ricordi. Le incongruenze del vocabolario, la politica, le password. La morte: lo spettacolo è pervaso dalla lacerazione per la recente scomparsa di sua madre. Un viaggio tra mito e quotidianità, una meditazione su cose e parole: «Sono venti piccoli racconti composti da immagini e musica e tradotti in una sorta di film tridimensionale. Trovo insopportabile chiudere i sogni dentro rettangoli, perciò in Delusion gli spazi su cui si riversano le proiezioni sono il fondo del palcoscenico, gli angoli della scena e un grande foglio di carta spiegazzato, e per chi non può farne a meno c´è pure uno schermo rettangolare. Lo sguardo dello spettatore può vagare senza fissarsi su un unico paesaggio».
Definita spesso una fanatica di universi iper-tecnologici, spiega che in verità per lei «la tecnologia è un attrezzo come un altro da usare. Nessuno si eccita se spinge un pulsante e succede qualcosa; tutto è già stato fatto, non c´è più sorpresa. Gli artisti che utilizzano la tecnologia solo per scioccare non capiscono che niente ormai impressiona più. Per questo non ho mai pensato a me stessa come a un´artista tecnologica. Sarebbe come dire che un pittore è un artista del pennello. Puoi suonare la tecnologia come un sassofono o puoi farne il più rozzo dei media».
Ora ovviamente la popolarità non la spaventa più, «e anzi mi piace che arrivi a dimostrarmi quanto è viva la mia comunicazione con il pubblico, e che ci sono ancora tante cose su cui possiamo dialogare. Voglio essere compresa, e se mi accorgo che un passaggio di una mia opera confonde troppo gli spettatori lo taglio». A evitare i labirinti cerebrali la aiuta il partner Lou Reed, che Laurie sembra amare molto: «è più diretto di me, che tendo a incastrarmi nelle metafore. Se scrivo qualcosa di oscuro mi sgrida: perché non dici semplicemente quello che vuoi dire? Ha un modo puro di usare il linguaggio e guardare le cose che io sto provando a imparare».