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 2010  novembre 02 Martedì calendario

L’ITALIA RISORGIMENTALE RENDE ONORE AI VINTI

Paolo Mieli e Giuliano Amato, ospiti di «Otto e Mezzo», si sono augurati che durante le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia si parli del brigantaggio nel Mezzogiorno come di un momento di protesta popolare contro l’invasore, piuttosto che delle battaglie e dei protagonisti del nostro Risorgimento. La posizione di Amato mi pare inaccettabile: come presidente del Comitato dei Garanti delle celebrazioni per il 150° dell’unità nazionale, preferisce portare all’attenzione dei giovani episodi e personaggi che hanno contrastato la nascita del nuovo Regno d’Italia, lasciando in ombra, perché ritenuti poco interessanti, coloro che sono stati gli artefici dell’unità e dell’indipendenza nazionale fino al sacrificio della loro vita. Vedo in queste posizioni una resa a letture della nostra storia, leghiste e neoborboniche, tendenti a negare come un valore per tutti gli italiani il raggiungimento dell’Unità.
Roberto Guerri, Milano
Quello che lei scrive sulla monarchia borbonica è assolutamente esatto. Era una tirannide paternalistica e bigotta. Pensi che mia nonna (classe 1888), quando eravamo piccoli, diceva che uno di noi nipotini era di «complessione» delicata, tanto in lei era ancora radicato il divieto di pronunziare il sostantivo «costituzione». Ma re Francesco è ricordato come un uomo di una bontà disarmante, che consolava quei garibaldini prigionieri che suo padre avrebbe probabilmente fatto fucilare e inviava ordini di mitezza ai suoi soldati, mentre i piemontesi condussero le operazioni militari con rabbia teutonica (altro che fratellanza italiana). Gaeta sarebbe presto caduta per fame e tifo; invece il 12 febbraio del 1861, mentre i plenipotenziari napoletani stavano trattando la resa della piazza con Cialdini, la batteria Transilvania fu distrutta a cannonate, con il risultato di molte decine di morti inutili. Per non dire poi delle rappresaglie contro le popolazioni civili, messe in atto prima e dopo il febbraio del 1861, che inducono a paragoni con episodi analoghi più recenti mai abbastanza vituperati.
Fabrizio Perrone Capano
fabrizio.perronecapano@fastwebnet.it
Cari lettori, la lettera di Perrone Capano risponde in parte a quella di Guerri. Non ho ascoltato «Otto e mezzo», ma credo di capire il punto di vista di Amato e Mieli. L’unità d’Italia fu anche il risultato, al Sud, di una guerra civile. Non dobbiamo vergognarcene. La Gran Bretagna, la Francia, la Svizzera e gli Stati Uniti devono la loro unità a un conflitto civile che ha messo in discussione l’esistenza dello Stato. Ma il vincitore non può continuare a trattare gli sconfitti, dopo la vittoria, con la durezza e il disprezzo con cui li ha descritti durante lo scontro. La Gran Bretagna rende oggi gli stessi onori a Cromwell e ai suoi nemici. La Francia ha smesso di considerare i ribelli vandeani, insorti contro la Repubblica giacobina fra il 1793 e il 1796, un popolo rozzo, primitivo e fanatico. La Svizzera, dopo la guerra del Sonderbund, è riuscita a riconciliare i cantoni cattolici e i cantoni protestanti. Gli Stati Uniti riconoscono il coraggio, le virtù, lo spirito cavalleresco dei proprietari terrieri degli Stati del Sud. Perché non dovremmo celebrare il 150° anniversario dell’Unità con spirito risorgimentale e ricordare contemporaneamente gli ostinati difensori borbonici di Messina, Civitella del Tronto, Gaeta? Come gli svizzeri che morirono alle Tuileries nel 1792 per difendere il palazzo del re contro il popolo di Parigi, quei soldati del Sud si batterono perché avevano giurato fedeltà al loro sovrano e non meritavano l’oblio a cui sono stati condannati.
Sergio Romano