Daniela Monti, Corriere della Sera 31/10/2010, 31 ottobre 2010
SENZA FINE
La bara di mio padre nel tinello di casa. Attorno, un lutto composto. Le due nipotine, 7 e 9 anni, sono accucciate accanto al catafalco che regge la salma del nonno. Estraggono da una valigetta da prestigiatore alcuni giochi di magia. Accennano a una corsa, ridono. «Sembra che il nonno stia dormendo». Gli esperti spiegano che è tipico dei bambini fuggire un evento doloroso aggrappandosi alla normalità della vita quotidiana. È uno scudo dietro il quale nascondersi: «Se continuo a fare le solite cose, se sono contento, vuol dire che non è accaduto nulla di grave». Si chiama «meccanismo della negazione» ed è lo stesso espediente che la nostra cultura, il nostro comune sentire hanno utilizzato per difenderci dalla morte — dal terrore, dallo smarrimento in cui getta la sola idea della mortalità — almeno dal Dopoguerra in poi. Viviamo cercando di convincere noi stessi che sia per sempre. I progressi della medicina hanno contribuito a radicarci in questa illusione. «La morte — scriveva l’antropologo Geoffrey Gorer già nel 1955 — è diventata un argomento osceno». «È lo scandalo della modernità», per usare le parole di Zygmunt Bauman.
Ora l’osceno torna a interrogarci e il merito non è della filosofia, a cui da sempre è stata delegata la ricerca di una risposta, accomunata in questo compito alla religione. La filosofia del Novecento, prendendo le mosse dalla costruzione heideggeriana, ha sviluppato un’intensa riflessione sulla morte. Ma quanto ha inciso tutto questo lavoro a livello della consapevolezza comune? Le nuove/vecchie inquietudini tornano ad esprimersi attraverso altri canali. Clint Eastwood con il suo ultimo film Hereafter, Aldilà, uscito da pochi giorni negli Stati Uniti (il gennaio prossimo in Italia) è capofila di una nuova riflessione, fuori dalle accademie, sui tabù della modernità: cosa c’è dopo la morte, la sofferenza della perdita, la malattia, il coraggio di affrontare una vita che, con brutalità, senza preavviso, si scopre mortale. Il racconto ha il tono lieve della commedia. «È un film romantico», ha detto il regista ottantenne. Se la morte è pornografia, è ciò a cui si accenna solo per eufemismi, per citare di nuovo Gorer, si può comunque provare a renderle il diritto di apparizione pubblica e di parola — parola leggera, che seduce. Una piccola scossa in uno stagno di acqua ferma. È il vecchio esorcismo che torna in abiti nuovi o un salto di qualità, se non nella comprensione, almeno nella consapevolezza che il «meccanismo della negazione» non ci potrà salvare per sempre dalla crudezza della realtà?
La morte è stata il tema centrale all’ultimo Festival di Venezia, un grande ritorno dopo una miriade di film emozionanti, bellissimi, dedicati al morire e al soprannaturale, da Dreyer a Bergman. Attenberg, il film greco di Athina Rachel Tsangari, racconta la storia di una figlia che scoprirà progressivamente la vita seguendo il padre nel suo ultimo viaggio; in Silent Souls, del russo Aleksei Fedorchenko, la storia è invece quella di un marito che deve accompagnare i resti di una moglie molto amata. Woody Allen, il maggio scorso, presentando a Cannes il suo You will meet a tall
dark stranger ( Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno, che fotografa il momento dell’esistenza in cui si sperimenta il panico dell’età che avanza, scoprendo di non essere immortali) con la sua battuta «la morte? Resto contrario» aveva avuto il merito di riportare nei titoli dei giornali la parola oscena, riservata solo a morti sparati o catastrofi lontane, mai a indicare il destino che ci attende tutti.
«Lo stratagemma della negazione, o della rimozione, sul lungo periodo non tiene — spiega Anna Oliverio Ferraris, tornando al modo in cui i bambini reagiscono al dolore di una perdita —. Ciascuno di noi, con gli anni, deve accettare che persone care non ci siano più. La morte ci costringe al confronto mentre siamo in vita».
Bauman scrive che è il romanzo la chiave con cui interpretare il mondo oggi. Il romanzo, non l’analisi sociologica. La trasposizione cinematografica della precarietà del vivere, della difficoltà di fare i conti con la nostra fragilità, lontano dall’essere accidentale, racconta di noi stessi forse più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Guardandoci intorno, c’è dell’altro: 1) alcune serie tv, per
esempio Beautiful, la telenovela infinita, aggrovigliano le loro trame, costruite su una miscela scomposta di sesso, amore e intrighi, costringendo ora i personaggi a confrontarsi con la morte e con il panico della malattia; 2) Michael Douglas, ultimo di una lunga fila di star, ha confessato pubblicamente la lotta contro un tumore alla gola che gli impedisce di mangiare: invece di nascondersi, ne ha fatto una bandiera, riconoscendo a questo dire pubblico la funzione di terapia; 3) «Sorridi, hai il cancro», titolava provocatoriamente il
Guardian un articolo di Barbara Ehrenreich in cui l’evento innominabile fino a non molto tempo fa (per alcuni ancora oggi) diventa l’episodio centrale di una vita, «la cosa migliore che potesse capitarmi», la sola che, in fin dei conti, con estrema brutalità, ci mette faccia a faccia con noi stessi, spingendoci a cercare, sotto la superficie scrostata, valori e significati nuovi (e la stessa urgenza di capire la malattia, assegnandole un posto nel mondo invece di voltare lo sguardo, si avverte nelle parole con cui Pupi Avati ha presentato il suo
Una sconfinata giovinezza: «Voglio far capire come l’Alzheimer può starci, dentro una vita»); 4) anche la cronaca spinge in questa direzione: il dibattito sul testamento biologico, innescato nel nostro Paese dalla tragica vicenda di Eluana Englaro, ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, strappandole per un istante (o forse più di un istante) allo stato di sonnambulismo in cui ci trasciniamo quando si tratta delle questioni centrali dell’esistenza.
Così la domanda torna: esorcismo o faticosa ricerca di risposte nuove? Scommette sulla seconda il filosofo Giovanni Reale: «Il bisogno è autentico. Che poi ne segua una risposta all’altezza sarà tutto da vedere. La tecnologia ha trasformato la vita biologica in un modo particolarissimo: mentre da un lato ha prolungato la vita fisica, dall’altro l’ha impoverita, ha reso sterile la dimensione dello spirito. Le immagini filosofiche e religiose sono state pressoché distrutte e l’uomo è diventato cosa e materia. Di quale vita e quale morte stiamo dunque parlando? Che cosa c’è dopo? Si sente il bisogno di un passaggio che non sia il disgregarsi nella terra, ma l’inizio di una nuova aggregazione». Con il film di Eastwood — candidato ad un ampio successo di cassetta — è proprio quel «dopo», l’aldilà, l’oltre che non è la pura e semplice morte, a prendere consistenza.
L’idea che ne abbiamo è frutto di una costruzione storica, una stratificazione di suggestioni e convinzioni che si sono via via succedute nel tempo, in un impasto che cambia sapidità in rapporto alle diverse epoche. Vale per l’aldilà dei cattolici, che appare più «codificato», e vale per l’aldilà laico, regno in cui l’immaginazione corre a briglie sciolte (o, al contrario, resta muta e cieca, paralizzata, «il pensiero del nulla è un nulla del pensiero, il nulla dell’oggetto annienta il soggetto», scriveva il filosofo franco-russo Vladimir Jankélévitch). Remo Bodei, filosofo laico aperto al mistero, sa di riassumere un pensiero comune a molti quando dice che «non sappiamo nulla di quello che succederà dopo la nostra morte. Non spero nel Paradiso, anche se sarebbe forse bello trovare l’insperato e l’inconcepibile. Ma per essere coerenti con noi stessi, bisogna inibirsi questi desideri, probabili frutti del nostro malessere sulla terra». L’esperienza tace, si procede per metafore, come in un film. Bodei richiama un passo di Gottfried Keller in cui lo scrittore svizzero descrive l’obitorio di una grande città di mare, dove cadaveri sono distesi uno accanto all’altro, come emigranti addormentati, in attesa di salpare l’indomani. «È un’immagine forte, c’è tutto l’ineffabile della morte e insieme l’inconcepibile speranza che quei corpi possano risvegliarsi un’altra volta e partire per un nuovo misterioso viaggio. Penso che questo sia il massimo che si può concedere alla ragione».
Platone è stato il primo a pensare l’aldilà in termini razionali — prima se n’era occupata la poesia — come la dimensione dell’essere che trascende il sensibile, una realtà che non si può cogliere con i sensi, ma con il nous. Il cristianesimo ha poi superato la scoperta platonica, aggiungendoci la resurrezione del corpo, ma l’immagine stessa del Paradiso (così come quella dell’Inferno) è sottoposta a continua revisione. Sant’Ireneo, un padre della Chiesa del II secolo, ne aveva fatto un luogo accessibile ai soli martiri, cioè a quelli che più avevano sofferto in vita e che meritavano dunque la ricompensa più alta. Con il passare del tempo le credenziali per l’ingresso si sono fatte meno rigide. Così l’Inferno: ai diavoli con i forconi, si è sostituita un’idea di infelicità eterna, di assenza eterna di desideri. «È all’inferno — scrive ancora Jankélévitch — che le creature sono condannate all’insonnia perpetua e al supplizio della noia senza fine: l’inferno è l’impossibilità di morire».
Ma l’aldilà è un elemento che non esaurisce la nuova riflessione. In gioco ci sono non solo la scommessa sull’anima, ma anche il corpo e il suo destino. Il corpo, così come oggi lo pensiamo, messo all’angolo e sezionato, si sfalda, evapora, niente ha a che fare con la fisicità concreta, fragile e mortale. «Anche se si parla molto di corpo, di quale corpo parliamo? — si è chiesta la filosofa Michela Marzano —. Non siamo ancora una volta di fronte ad un dualismo? Non il dualismo della filosofia tradizionale, fra anima e corpo, ma una nuova forma che passa per un’opposizione e una contrapposizione fra volontà e materialità, come se ognuno di noi, in quanto agente razionale, potesse imporsi sulla materialità e fare come se il corpo in quanto tale non esistesse». Invece il corpo esiste e, per quanti sforzi facciamo, non è (ancora) bionico.
«C’è una forte esigenza di parlare, di rivedere l’atteggiamento di totale fuga di fronte al pensiero della morte», dice Marina Sozzi, direttore scientifico della Fondazione Fabretti di Torino e autrice del volume Ripensare la morte, edito da Laterza. Dopo tanto silenzio, a 16 anni dall’uscita in Inghilterra viene tradotto da Utet The Revival of Death del sociologo Tony Walter, forse un segno che anche da noi è il tempo giusto per un «revival». «Se non ci facciamo i conti, consapevolmente e con un po’ di coraggio esistenziale, quello che abbiamo cacciato dalla porta rientra dalla finestra (e non è detto che sia un rientrare soft: i lutti patologici sono in aumento)», riprende la Sozzi.
Il «meccanismo della negazione» lavora così in profondità da spingerci a conclusioni paradossali. Ne sono un esempio gli ospedali, dove oggi muore l’80 per cento dei cittadini europei senza che ve ne sia consapevolezza alcuna: continuiamo a pensare i decessi in corsia come «accidentali», anche se i dati dicono che sono più prossimi alla «normalità» che all’eccezione. «In Piemonte siamo giunti all’assurdo di progettare ospedali senza camere mortuarie — continua la studiosa —. Ne abbiamo visitate 52: squallide, senza spazio sufficiente, fatiscenti». Stanze con la scritta «deposito», spesso nei seminterrati, come nel sottosuolo Caronte si dava da fare ai remi.
Il Novecento ha psicologizzato e medicalizzato il lutto, facendolo diventare una malattia da cui guarire. I gruppi di auto aiuto della fondazione Fabretti — dove persone di età ed estrazione diverse si confrontano per dare un senso alla morte, non per rimuoverla — sono la prova che è possibile percorrere altre strade. Tornare a parlare dell’aldilà significa che ci stiamo riconciliando con la fine? «La qualità dell’esperienÈ Clint Eastwood il capofila di una nuova riflessione sui tabù della modernità za della morte non è legata alla presenza di un aldilà ma al fatto di riuscire a sentire qualcosa di vivo, di importante, fino negli ultimi istanti di vita — chiude Marina Sozzi —. Non essere abbandonati a se stessi, bambinizzati. Quando un anziano vorrebbe parlare della propria morte, subito viene zittito, rassicurato. C’è una barriera comunicativa che non riusciamo più a scavalcare».
Scettica circa una reale ripresa di dialogo su questi temi la psicoterapeuta e psichiatra Marina Valcarenghi: «C’è sempre stato interesse per la morte nella cultura e nel cinema — dice —. È nel resto del mondo, nel modo di vedere della maggioranza della gente, che l’argomento è vissuto come spettacolo, finzione, qualcosa che riguarda sempre gli altri». Se si parla di morte è dunque solo per esorcizzarla. «L’aldilà è auto protezione, auto rassicurazione, ognuno se lo inventa come vuole. La morte come riflessione sulla fine del proprio io crea panico. Mentre nelle epoche passate eravamo capaci di accettare che il mondo andasse avanti senza di noi, oggi, se finisce il nostro io, nulla ha più senso. Lo vedo fra i miei pazienti, ma anche fuori dallo studio». L’aldilà è un oggetto di fede, continua Valcarenghi. Per chi condivide una visione laica, semplicemente non esiste. «Una bambina una volta mi ha detto: "Dopo, si fa la nanna". Penso abbia ragione: si chiudono gli occhi e tutto finisce lì».
Daniela Monti