Massimo Mucchetti, Corriereconomia 1/11/2010, 1 novembre 2010
FIAT, RADIOGRAFIA DI UN COLOSSO ALLA SVOLTA
Forse non tutti si sono accorti che, conversando con Fabio Fazio alla trasmissione televisiva «Che tempo che fa», Sergio Marchionne ha regalato una rilevante novità nell’informativa societaria della Fiat. L’Italia, ha detto, non contribuisce neppure per un euro ai 2 miliardi di utile operativo del gruppo atteso nel 2010. E’ la prima volta che un amministratore delegato della Fiat rivela il risultato grezzo delle attività del gruppo in un singolo Paese. Del resto, le multinazionali sono spesso reticenti in materia.
I numeri
Apodittica e non verificabile, la notizia ha lo scopo evidente di minare le posizioni dei critici italiani nel quadro di una comunicazione che tende a dividere il Paese tra chi è a favore del bene (la Fiat che vuole risalire la china in patria) e chi il bene non vuole (la Fiom, ma anche tutti quelli che, più o meno dubbiosi, chiedono chiarimenti).
In realtà, la situazione è più complicata. Non tutto va male. Nei primi nove mesi del 2010, la Ferrari ha fatto 192 milioni di utile operativo. La Maserati 16. Il Comau uno. L’Iveco, che ha quasi tutto in Italia, 130. Di altre società del gruppo, come Marelli e Powertrain, è difficile dire.
Il problema sta in Fiat Auto e, forse, in Cnh. La somma algebrica tra gli utili e le perdite di tutte le attività italiane darà anche un saldo negativo, ma perché fare di tutte le erbe un fascio? Meglio sarebbe capire come mai la casa torinese non riesce più a fabbricare in Italia automobili remunerative. Eppure, ce la faceva negli anni Ottanta, ancora incendiati dal terrorismo. E un po’ anche dopo.
Sei anni fa, quando Marchionne prese il timone, i marchi Fiat avevano ancora il 31% del mercato italiano e in quest’autunno tribolato sono al 29. Un bilancio pro forma della Fiat Auto in Italia aiuterebbe i dipendenti a capire perché sia stato loro negato il premio di produzione benché, dicono i sindacati, sia basato su indici globali. Ma soprattutto aiuterebbe tutti — governo, azionisti, banche e sindacati — a farsi un’idea del futuro possibile.
Il nodo produttività
Non ha molto senso lamentare all’improvviso la scarsa produttività dei 5 stabilimenti italiani dell’auto, quando sono messi in cassa integrazione perché i modelli loro affidati non si vendono, e confrontarli con quello polacco di Tychy, che va a mille perché produce le bestseller 500 e Panda e la Ka della Ford.
E’ vero, nel 2009, come rileva il Sole 24 Ore, i 5.200 dipendenti di Pomigliano hanno prodotto 6,9 Alfa Romeo a testa, ma hanno anche fatto tanta cassa e quest’ anno hanno lavorato 28 giorni sulla 159 e 14 su 147 e Gt. A ben vedere, poi, si dovrebbe ragionare in termini di valore prodotto per ora lavorata, perché l’Alfa 159 vale 4-5 Panda, e non in meri termini di vetture.
Fare i conti seriamente non cancellerebbe la questione della saturazione degli impianti come elemento, peraltro non unico, della produttività, ma costringerebbe tutti a ragionare sul valore che si può produrre stabilimento per stabilimento prima di aprire scontri sociali.
L’assenteismo di massa in coincidenza di talune partite di calcio e gli scioperi selvaggi registrati a Pomigliano non sono mai giustificabili, anche se qualche statistica consentirebbe di soppesarne meglio l’importanza. Eppure, con le vecchie gestioni vi si montavano ancora 180 mila Alfa. Nel 2006 Marchionne ne promise 300 mila. Ora, distribuite tra Pomigliano, Cassino e Mirafiori, se ne producono 100 mila. La Nuova Panda servirebbe a far girare gli impianti in mancanza di nuovi modelli dell’Alfa.
Nel 2014, si dice, il marchio del Biscione venderà mezzo milione di auto. Sarebbe un record senza precedenti, al quale si dovrebbe credere sulla parola. Come si dovrebbe prestar fede alla promessa di salari tedeschi se le fabbriche italiane raggiungeranno una produttività tedesca, benché questi livelli siano già stati raggiunti a Tychy dove i salari sono rimasti polacchi.
I modelli
Marchionne mescola la scarsa produttività di Fiat Auto, che offre ancora una maggioranza di modelli fatti dalle gestioni precedenti, con una più generale inefficienza del lavoro e con una scarsa competitività delle imprese italiane. Ma questo lamento universale, che farebbe della Fiat l’alfiere del riscatto, si fonda sui dati superficiali del World Economic Forum, che a dispetto del nome è solo un organizzatore di convegni che produce sondaggi d’opinione sulla base dei pregiudizi del Washington Consensus.
Secondo Mediobanca e Unioncamere, che lavorano sui bilanci e non sulle percezioni personali di campioni poco rappresentativi, l’Italia industriale è una cosa (efficiente), la Fiat Auto un’altra (non efficiente). E l’Italia industriale oggi patisce una caduta della produttività dovuta alla recessione, ma prima aveva recuperato molto, salvo aver dirottato il maggior valore aggiunto verso il capitale a scapito del lavoro.
I precedenti storici
Questo associare la Fiat Auto all’Italia industriale in un unico, disperante giudizio conferisce echi singolari all’elogio della Chrysler, salvata, se lo sarà, con i soldi del governo Usa e le tecnologie italiane. Detroit tenta gli Agnelli e la Fiat da 80 anni. Pochi sanno che, come ha rivelato lo storico Pierangelo Toninelli su Enterpri
se & Society, già nel 1930 il senatore del Regno, Giovanni Agnelli, progettò di dividere il gruppo
Fiat in due, proprio come sta facendo John Elkann, offrendo alla Ford la metà della quota di controllo.
La Ford non accettò perché Torino voleva produrre e vendere con il marchio Fiat mentre Edsel Ford cercava di imporre il proprio brand in Italia. (Toninelli considera quell’offerta come un tentativo, riuscito, di mandare a monte l’acquisizione dell’ Isotta Fraschini da parte della Ford, ma resta il fatto che Agnelli aveva fatto anche il prezzo minimo 168 milioni di lire).
Mezzo secolo dopo, il progetto di fusione tra Fiat Auto e Ford Europe andò in fumo per il motivo opposto: l’avvocato Giovanni Agnelli non accettava che, dopo un primo giro con Vittorio Ghidella, la guida passasse agli americani.
Nel 1990 la Casa Bianca propose per la prima volta la Chrysler. Attratto dai finanziamenti del Tesoro Usa anche allora disponibili, Cesare Romiti era pronto a provarci, ma Umberto Agnelli puntò i piedi e la Fiat rinunciò. Dieci anni dopo l’accordo con General Motors, negoziato da Paolo Fresco.
Ma alla scadenza delle opzioni nel 2005, anziché costringere la nolente Gm a prendersi anche a costo zero la Fiat Auto, Marchionne trattò la ritirata di Gm che pagò 1,5 miliardi tra penale e acquisto della tecnologia multijet.
Fatti i conti, alla Fiat avrebbe reso di più fare quello che ha fatto o rinunciare all’auto e alla penale concentrandosi sul resto?
Comunque si risponda, adesso la Fiat ha davvero un piede in America. Ma se non si risolve il problema di che cosa produrre e come in Italia, le parti si possono invertire.
Di questo passo, divergendo gli andamenti produttivi e commerciali, la Cenerentola Chrysler potrebbe diventare già alla fine del 2011 il polo d’attrazione spostando oltre Atlantico il baricentro dell’auto.