Francesco Bonami, La Stampa 2/11/2010, pagina 1, 2 novembre 2010
Qualche mese fa ho accompagnato Damien Hirst a vedere lo Studiolo di Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio a Firenze
Qualche mese fa ho accompagnato Damien Hirst a vedere lo Studiolo di Francesco I de’ Medici a Palazzo Vecchio a Firenze. Da questa visita è nata l’idea di trasformare questa camera delle meraviglie rinascimentale in un’anticamera per la meraviglia delle meraviglie del XXI secolo: il famoso teschio di diamanti creato dallo stesso Hirst, che sarà presentato per la prima volta in Italia a Firenze dopo Londra e Amsterdam dal 26 novembre di quest’anno al 1° Maggio del 2011. For the Love of God (Per amore di Dio) è il titolo di questo lavoro. Alcuni lo ritengono eccezionale, molti una truffa messa in piedi da quel mercato dell’arte che considerano alla pari di un’organizzazione criminale. Per loro infatti Hirst, forse l’artista più famoso e ricco del mondo, è un ciarlatano. Per il sottoscritto, che lo conosce ormai da quasi vent’anni, ciarlatano non è. Non lo è perché con il suo lavoro e con il suo modo di guardare e usare l’arte ha cambiato le regole del sistema dell’arte e pure quelle del mercato. La famosa asta di tutte le sue opere, sfornate dal suo studio prima ancora che fossero mostrate in galleria o in museo, non solo fu un successo commerciale consumato la notte del crollo dell’economia mondiale. Fu anche un modo abbastanza rivoluzionario di dire alle varie tribù dell’arte, fatte di regole etiche molto discutibili e flessibili, «Signori, voi fate come volete. Io, artista, il mio lavoro me lo gestisco». Nonostante un recente articolo dell’ Economist sottolineasse come i prezzi alle aste delle opere di Hirst siano crollati, il suo mercato primario, artista-galleria-collezionista, è ancora floridissimo. Ma oltre al mercato dell’arte, Damien Hirst con il suo teschio di diamanti, stimato più di 100 milioni di dollari, è riuscito a mettere in crisi anche il mercato dei diamanti, scegliendo uno per uno gli 8601 che lo compongono, più quello grande sulla fronte a forma di pera. Stando molto attento a selezionare solo quelli purissimi sia dal punto di vista della pietra che da quello morale, ovvero evitando i diamanti che arrivavano da Paesi in mano a gente democraticamente, diciamo, sottosviluppata. Insomma, sul teschio non ci sono pietre regalate dal signor Taylor né da Naomi Campbell. Un’operazione di bieca comunicazione, dicono gli scettici moralisti. Mi chiedo se direbbero lo stesso della saliera d’oro di Benvenuto Cellini fatta nel 1543 per Francesco I di Francia, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna e assicurata per più di 60 milioni di dollari. Probabilmente no, anche se invece nel Rinascimento, re e duchi l’arte l’usavano proprio per comunicare il loro potere ai propri colleghi e rivali: se ne fregavano del successo di pubblico o se i propri sudditi, che spesso morivano di fame, avrebbero apprezzato o capito il capolavoro. Con il teschio di diamanti, Hirst ha creato un mito e, come dice una frase del film The Social Network su Facebook, «Le creazioni dei miti hanno bisogno del loro diavolo». Sono andato ad intervistare questo diavolo per saperne un po’ di più sulla sua cattiveria, a Londra nella sede di Science, la società dell’artista che gestisce tutto il suo lavoro. Ad accogliermi all’entrata una scultura di Jeff Koons, uno degli artisti che Hirst colleziona con regolarità insieme a tanti altri (vanno da Bacon a giovanissimni talenti contemporanei) e che un giorno finiranno nel suo castello nella campagna inglese destinato a diventare una fondazione aperta al pubblico. Quando ti è venuta l’idea del teschio di diamanti? «Ho sempre pensato a che cosa puoi buttare fra i piedi della morte e mi sono sempre piaciuti quei teschi decorati degli aztechi. Particolarmente il teschio di turchesi che c’è al British Museum. Ho anche comprato alcuni lavori di Steven Gregory, compreso un teschio incastonato con lapislazzuli. Così un giorno che avevo un sacco di contante fra le mani ho pensato di fare il mio teschio. Era prima che ci fosse il crash dell’economia». È il miglior lavoro che tu abbia mai fatto o solo quello scandalosamente più costoso? «La ragione per cui mi piace non ha niente a che fare con il denaro. È che sembra cosi nuovo, caldo e invitante che fa sembrare tutto il resto ok, compresa la morte, che credo sia un po’ un’ illusione… vero? Idealmente in quale museo vorresti vedere andare a finire il teschio? «A Città del Messico sarebbe bello, nel museo archeologico, vicino al calendario azteco». Se il museo ideale si fa avanti, prenderesti in considerazione di donarglielo? «Non credo proprio. Prima mi costruisco il mio museo. Non mi piace fare le cose con le regole degli altri». Sei in competizione con la Storia? «Forse la mia storia, ma non in generale. Credo che tutti gli artisti vogliano evitare di diventare Storia. Non credo che ci sia bisogno di essere artista per questo obbiettivo» Il tuo obiettivo è quello di testare i limiti del mercato dell’arte? «No. Credo di conoscerli già i limiti del mercato dell’arte, ne abbiamo avuto testimonianza di recente. Voglio testare i limiti dell’arte. Più ci provo più mi rendo conto che non ci sono limiti, che è poi la sua bellezza». Cosa ti eccita di più: essere un grande artista, essere l’artista più famoso di tutti o essere il più ricco? «Mi eccita soltanto il successo. Un successo che però misuro solo secondo i miei criteri e non quelli di altri. Ho imparato molto presto che non importa quanto grande è il tuo yacht. C’è sempre qualche bastardo che te ne parcheggerà uno più grande accanto. L’importante è la relazione che tu hai con le tue cose, che non sono gli yacht, naturalmente, non come ti misurano gli altri». Sei anche un grande collezionista. Quante delle opere che hai comprato pensi siano meglio del tuo lavoro? «Tutte direi, a parte un paio di cose che ho comprato dopo qualche pranzo dove avevo bevuto troppo. Nei miei lavori posso vedere dietro le quinte cosa li tiene a malapena insieme. Nei lavori degli altri questo non lo posso vedere, per questo li compro». Perché ora hai iniziato a fare dei quadri con le tue mani invece di lasciarne come sempre in passato la realizzazione ai tuoi assistenti? È una sfida per provare qualcosa? «È una cosa che mi ha sempre stuzzicato e alla quale giravo attorno. Non potevo più evitare di farlo. Invecchiando ho iniziato a dubitare della freddezza della prova scientifica. Di solito odiavo la letteratura, non mi andava proprio giù, ma ora sono cambiato, ho bisogno di storie, storie inventate. Forse avevo questa cotta per l’arte minimalista e concettuale che adesso mi è completamente passata». Hai diviso il mondo in due, quelli che pensano tu sia un genio e quelli che pensano tu sia una truffatore. «Mi hanno sempre confortato le opinioni contrastanti. Il mio terrore è sempre stato quello di essere ignorato». Perché non hai venduto il teschio? Una questione di soldi o una questione di dove doveva andare a finire? «La persona alla quale dovevo venderlo ha fatto marcia indietro, cosi ho venduto una percentuale, il 25%, a un gruppo di investitori in modo da recuperare un po’ del denaro che avevo speso» Sembri a prova di bomba per quel che riguarda le critiche. Fai buon viso a cattivo gioco anche se qualcosa ti ferisce oppure pensi che le critiche siano parte di tutto il gioco? «Di solito le critiche vanno fuori bersaglio, grazie a Dio, ma certo sono anch’io un povero essere umano e qualche volta mi trovo d’accordo con chi mi critica, ed è quando soffro davvero. Non capita spesso. Di solito i critici non hanno idea di cosa stanno parlando quando mi danno adosso». Presto avrai la tua prima grande mostra retrospettiva alla Tate Modern, avevi sempre resistito all’idea di una mostra del genere. Cosa ti ha fatto cambiare idea? «Stiamo parlando di fare una mostra, ma nulla è deciso ancora. Tuttavia oggi sono più pronto a guardarmi indietro che qualche anno fa. Ho fatto parecchia strada e osservare i miei tre figli crescere mi ha fatto cambiare parecchie idee». I tre migliori artisti di tutti tempi. Uno dovrebbe essere vivo e non devi essere tu «Warhol, Picasso, Schnabel (scoppia in una fragorosa risata, ndr). Scherzo, scherzo. Ma questa è la risposta che mi diede Schnabel quando gli feci la stessa domanda. Duchamp, Bacon, Koons». Sei anche un impresario. Hai mai pensato di smettere di fare l’artista? «Sì, una volta ci ho pensato. Ho pensato di trasferire tutta l’energia che mettevo nell’arte nella gente che mi stava attorno. Ne discussi con la mia fidanzata e lei mi disse “Vai al diavolo! Io ho bisogno che tu faccia l’artista!”. Che alla fine è giusto, visto dove sono arrivato». Il miglior momento della tua carriera? «Ce ne sono un po’. Quando Larry Gagosian mi disse: “Ma che cosa hai che non va? Van Gogh non ha mai venduto un lavoro quando era vivo!” Oppure quando incontrai un collezionista tanti anni dopo aver comprato uno dei miei armadietti con le medicine per 500 sterline e averlo rivenduto un mese dopo per 1400, pensando di essere stato furbo. Gli chiesi sadicamente se ce lo aveva ancora (quando glielo chiesi li vendevano per un milione di sterline). Il mio opening da Saatchi, quando mi accorsi che avevo davvero raggiunto qualcosa. Vedere il teschio di diamanti finalmente finito per la prima volta». Il peggior momento? «Quando il mio amico Angus Fairhurst (un artista dei famosi Young British Artist, ndr) s’impiccò». Un’opera di cui ti vergogni? «Prima di vergognarmi provo a cambiare le cose. Ho distrutto qualche opera, ma di solito finché non le risolvo continuo a lavorarci. Mi pare che parlare di vergogna sia esagerato. Caso mai abbasso le mie pretese». Cosa ha trasformato di più la tua vita, essere artista o il denaro? «Non riesco a ricordare come fosse la mia vita prima di essere artista. Ho sempre disegnato e dipinto, e l’arte mi ha sempre dato gioia, ma i soldi sono importanti, non direi mai che sono una cosa cattiva. Ma il denaro è falso mentre l’arte è vera. In ogni caso è bene rispettare tutte e due le cose». Pensi che il Damien di Leeds, la città dove sei cresciuto, è diverso dal Damien di oggi? «Un po’ diverso ma non troppo, sicuramente sono diventato pìù saggio». Per che cosa vuoi essere ricordato? «Per essere stato un bravissimo babbo».