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 2010  ottobre 30 Sabato calendario

GRANDE GUERRA, L’ITALIA PRESE IL VOLO

Abbatti un aereo nemico e guadagni settemila lire: l’equivalente della pensione annua di un alto ufficiale, tre anni e mezzo di paga media di un operaio...
Niente videogioco a premi, però.
Questa era la quota assegnata ai pilo­ti militari italiani nella Grande guer­ra, grazie a veri e propri concorsi per ’Cacciatori del cielo’ banditi dalla Pi­relli piuttosto che dalla Fiat o dalla Michelin e destinati a chi avesse tota­lizzato più vittorie nei duelli aerei in un quadrimestre. Proprio così, come in una lotteria; e persino il mitico Francesco Baracca nell’autun­no 1917 dovette accontentarsi del secondo premio da cinque­mila lire, essendo arrivato se­condo pur con dieci vittorie...
Ma fare i piloti di guerra poteva essere un ’affare’, anche dal punto di vista economico. E non solo: perché la vita degli ardimentosi che si levavano sui loro trabiccoli di tela era senz’altro privilegiata rispetto ai colleghi che si logoravano nelle trincee senza mai poter dormire all’asciutto o su mate­rassi di lana, senza l’aura eroica da ’cavaliere’ che circondava i pionieri dell’aeronautica, senza gli strappi al­la disciplina loro concessi. Tant’è ve­ro che non pochi presentavano do­manda per passare dalla fanteria o dal genio alla nuovissima arma alata: la quale, essendo di recente costitu­zione, aveva estremo bisogno di forze fresche e non stava a guardare troppo per il sottile nel vagliarle. Dal fango al vento: ecco la legittima aspirazione che fornisce il titolo al bel saggio del­lo storico Fabio Caffarena su «gli a­viatori italiani dalle origini alla Gran­de guerra». Un lavoro basato diretta­mente sugli archivi militari e dunque depurato dalle esaltazioni dannun­ziane – che pure vi sono citate e de­scritte – con cui è sovente tuttora cir­condata l’epica aeronautica delle ori­gini. Gli aspetti economici sopra cita­ti ne sono un esempio; e l’autore e­semplifica ancor meglio ripercorren­do attraverso gli epistolari la vicenda di alcuni piloti per i quali il salto alla cloche di un biplano rappresentò an­che il decollo verso una promozione sociale altrimenti impensabile. Servi della gleba diventati cavalieri. Conta­dini elevatisi letteralmente dalla terra al cielo. Ex operai che diventano vip, fotografati e posti sulle copertine dei settimanali patriottici accanto al loro velivolo da combattimento. Dopo pochi mesi in cui sembrò infatti che il volo dovesse essere riservato ai soli ufficiali (e dunque agli aristocratici, ai colti), lo sviluppo tumultuoso dell’arma azzurra – all’inizio delle o­stilità l’Italia disponeva di soli cento­cinquanta piloti, alla fine del conflit­to avranno volato in oltre cinquemila – rese inevitabile l’apertura del reclu­tamento prima ai sottufficiali, poi ai soldati di truppa (furono almeno un terzo del totale complessivo): purché sapessero leggere e scrivere. Anzi, privilegiati nel reclutamento diven­nero proprio gli operai, i meccanici di auto ma anche di biciclette, i con­ducenti in possesso di una qualun­que patente. L’aeronautica si tra­sformò nell’unico ambiente davvero interclassista dell’esercito, dove si va­leva non tanto per i natali ma per l’ef­fettiva abilità tecnica e il sangue fred­do dimostrati lassù. Logico dunque che parecchi, soprattutto giovanissi­mi ’pinguini’, ambissero a imitare il cavallino rampante (il quale a ogni buon conto era ufficiale...) diventan­do ’aquile’ se non ’assi’: titolo con­quistato dopo almeno cinque vittorie aeree. Tuttavia l’ala possedeva anche un lato nascosto e infido: la paura, l’enorme percentuale di incidenti in addestramento (c’erano campi di vo­lo che totalizzavano due allievi morti a settimana), il ridottissimo tempo per apprendere a pilotare, lo stress cui non tutti sapeva­no resistere e che si rivela nelle numerose richieste di esonero. Se dunque nelle trincee si stava scomodi e bagnati, alla fine le proba­bilità di morire nel fango erano meno della metà rispetto a chi si avventura­va nel vento: la percentuale delle vit­time nell’esercito ’15-’18 arriva infatti al dodici per cento, mentre nell’aero­nautica sale al trenta. Chi comunque sopravvisse ebbe poi un’ulteriore ghiotta possibilità, quella di entrare nella nascente aviazione civile. Non tutti però: per qualcuno la smobilita­zione segnò l’atterraggio definitivo e il rientro nelle occupazioni normali.