Roberto Beretta, Avvenire 30/10/2010, 30 ottobre 2010
GRANDE GUERRA, L’ITALIA PRESE IL VOLO
Abbatti un aereo nemico e guadagni settemila lire: l’equivalente della pensione annua di un alto ufficiale, tre anni e mezzo di paga media di un operaio...
Niente videogioco a premi, però.
Questa era la quota assegnata ai piloti militari italiani nella Grande guerra, grazie a veri e propri concorsi per ’Cacciatori del cielo’ banditi dalla Pirelli piuttosto che dalla Fiat o dalla Michelin e destinati a chi avesse totalizzato più vittorie nei duelli aerei in un quadrimestre. Proprio così, come in una lotteria; e persino il mitico Francesco Baracca nell’autunno 1917 dovette accontentarsi del secondo premio da cinquemila lire, essendo arrivato secondo pur con dieci vittorie...
Ma fare i piloti di guerra poteva essere un ’affare’, anche dal punto di vista economico. E non solo: perché la vita degli ardimentosi che si levavano sui loro trabiccoli di tela era senz’altro privilegiata rispetto ai colleghi che si logoravano nelle trincee senza mai poter dormire all’asciutto o su materassi di lana, senza l’aura eroica da ’cavaliere’ che circondava i pionieri dell’aeronautica, senza gli strappi alla disciplina loro concessi. Tant’è vero che non pochi presentavano domanda per passare dalla fanteria o dal genio alla nuovissima arma alata: la quale, essendo di recente costituzione, aveva estremo bisogno di forze fresche e non stava a guardare troppo per il sottile nel vagliarle. Dal fango al vento: ecco la legittima aspirazione che fornisce il titolo al bel saggio dello storico Fabio Caffarena su «gli aviatori italiani dalle origini alla Grande guerra». Un lavoro basato direttamente sugli archivi militari e dunque depurato dalle esaltazioni dannunziane – che pure vi sono citate e descritte – con cui è sovente tuttora circondata l’epica aeronautica delle origini. Gli aspetti economici sopra citati ne sono un esempio; e l’autore esemplifica ancor meglio ripercorrendo attraverso gli epistolari la vicenda di alcuni piloti per i quali il salto alla cloche di un biplano rappresentò anche il decollo verso una promozione sociale altrimenti impensabile. Servi della gleba diventati cavalieri. Contadini elevatisi letteralmente dalla terra al cielo. Ex operai che diventano vip, fotografati e posti sulle copertine dei settimanali patriottici accanto al loro velivolo da combattimento. Dopo pochi mesi in cui sembrò infatti che il volo dovesse essere riservato ai soli ufficiali (e dunque agli aristocratici, ai colti), lo sviluppo tumultuoso dell’arma azzurra – all’inizio delle ostilità l’Italia disponeva di soli centocinquanta piloti, alla fine del conflitto avranno volato in oltre cinquemila – rese inevitabile l’apertura del reclutamento prima ai sottufficiali, poi ai soldati di truppa (furono almeno un terzo del totale complessivo): purché sapessero leggere e scrivere. Anzi, privilegiati nel reclutamento divennero proprio gli operai, i meccanici di auto ma anche di biciclette, i conducenti in possesso di una qualunque patente. L’aeronautica si trasformò nell’unico ambiente davvero interclassista dell’esercito, dove si valeva non tanto per i natali ma per l’effettiva abilità tecnica e il sangue freddo dimostrati lassù. Logico dunque che parecchi, soprattutto giovanissimi ’pinguini’, ambissero a imitare il cavallino rampante (il quale a ogni buon conto era ufficiale...) diventando ’aquile’ se non ’assi’: titolo conquistato dopo almeno cinque vittorie aeree. Tuttavia l’ala possedeva anche un lato nascosto e infido: la paura, l’enorme percentuale di incidenti in addestramento (c’erano campi di volo che totalizzavano due allievi morti a settimana), il ridottissimo tempo per apprendere a pilotare, lo stress cui non tutti sapevano resistere e che si rivela nelle numerose richieste di esonero. Se dunque nelle trincee si stava scomodi e bagnati, alla fine le probabilità di morire nel fango erano meno della metà rispetto a chi si avventurava nel vento: la percentuale delle vittime nell’esercito ’15-’18 arriva infatti al dodici per cento, mentre nell’aeronautica sale al trenta. Chi comunque sopravvisse ebbe poi un’ulteriore ghiotta possibilità, quella di entrare nella nascente aviazione civile. Non tutti però: per qualcuno la smobilitazione segnò l’atterraggio definitivo e il rientro nelle occupazioni normali.