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 2010  novembre 01 Lunedì calendario

DA FRATELLI A NEMICI DI GUERRA DIVAC-PETROVIC ORA È UN FILM

Vent´anni fa, tra pochi mesi. Fu allora, in quel fine giugno del 1991, che uscì da un campo di basket l´ultima Jugoslavia conosciuta. Accadde a Roma, campionati Europei: naturalmente vinti. Timida finalista, l´Italia non mise becco, anche se almeno, all´epoca, disputava finali. Magnifica tra i canestri, la Jugoslavia iniziava a fracassarsi dentro i crepacci della sua storia. E proprio durante quegli Europei, quando l´esercito federale attaccò la piccola Slovenia, partì il primo smottamento. Nel ritiro della nazionale, prima della semifinale, arrivò un fax da Lubiana. Jure Zdovc, guardia titolare e unico sloveno del gruppo, doveva svestire subito la maglia del paese che stava cannoneggiando la sua gente. Tirarono avanti gli altri, serbi e croati, bosniaci e montenegrini, già presaghi delle prossime diaspore. Ai Giochi di Barcellona ‘92 si vide solo la Croazia: seconda, dietro il Dream Team americano. Sanzionata con l´embargo per i crimini di guerra, la Serbia riapparve agli Europei di Atene ‘95, dove le due nazionali nemiche non riuscirono a condividere neppure il podio: primi i serbi, terzi i croati, questi ultimi ne scesero agli inni, sfilando via allineati, in una protesta cupa e muta. Dai fratelli separati li divisero pure le cene fredde, consumate in un´ultima notte rinserrata nelle stanze dell´hotel.
«Vent´anni fa», avvia il suo racconto il vocione rauco di Vlade Divac, mentre guida in una Zagabria brumosa e invernale. Non l´aveva più rivista dall´estate dell´89: un´altra medaglia d´oro, tanto per cambiare, gli Europei vinti in casa. Ora 42 enne, quello che scivola sulle strade dell´ex Jugoslavia è un ex pure lui. Ex pivot dei plavi, gli azzurri della nazionale. Ed ex pivot dei Lakers, adorato da Magic Johnson. Guida, l´omone stempiato e appesantito, braccando ombre del passato. Troverà una tomba su cui lasciare una foto: l´abbraccio di due giganti giovani e forti. Uno è lui, l´altro Drazen Petrovic. Quello sepolto lì.
Once brothers, si chiama la storia, diventata film. «Un tempo fratelli». E poi non più. Cresciuti insieme, fra sogni e trionfi. Capaci poi, giocandosi contro nella Nba, uno ai Lakers e uno ai Blazers e poi ai Nets, di non scambiarsi una parola, anche sbattendosi addosso. E perché mai? Perché Vlade è serbo e Drazen croato. Li ha divisi la guerra, per un pezzo. E la morte, poi, per sempre. Drazen Petrovic, il Mozart del basket, tant´era sinfonico e genialmente unico il suo gioco, si schianta nel ‘93 su un´autostrada tedesca: a 29 anni, dentro una Golf guidata dalla fidanzata Klara, in una sera di diluvio. Lascia in tutti rimpianti e in Vlade rimorsi, fino a questo viaggio che, vent´anni dopo, somiglia a un´espiazione, risalita la corrente dei pensieri in un paese che fu. Scende dall´auto, suona a un campanello, porge un mazzetto di fiori a una signora distinta, avvolge in un abbraccio un altro vecchio ragazzo: la mamma di Drazen e suo fratello maggiore, Aza, cestista pure lui.
Cliccatissimo in più frammenti su Youtube, il film, prodotto dalla Nba e trasmesso dalla Espn, rievoca la storia di una squadra tra le più belle dello sport mondiale, intrecciandone vita agonistica e dannazione storica. E´ la guerra civile a spaccarla, non gli avversari. «Io, Drazen, Toni, Dino, Stojko, Zarko, Zoran...». L´indice solca le foto in bianco e nero, toccando Petrovic, Kukoc, Radja, Vrankovic, Paspalj, Savic. Alla generazione di fenomeni già sbocciano accanto gli implumi Djordjevic, Danilovic, Komazec, Rebraca. Il salotto dei Petrovic s´imbeve d´emozione. «Ero in vacanza alle Hawaii - racconta Divac -, sentii le news. Uno choc». Drazen morto: Denkendorf, 7 giugno ´93. In auto per caso. Per salire e scendere, quella volta il destino usò una scala mobile. Aeroporto di Francoforte, la nazionale croata s´avvia al volo per Zagabria, ma appare Klara, trafelata per il ritardo, incrocia Drazen, se ne vanno insieme. L´ultima corsa, addosso a un camion uscito di corsia. Andò a riconoscere la salma Neven Spahjia, amico d´infanzia a Sebenico, oggi bravo allenatore. Raccontò poi d´avergli trovato in tasca un foglietto. Tre nomi di squadre, tre cifre: le offerte di Knicks e Nets nella Nba, e del Panathinaikos Atene. Forse, Drazen sarebbe tornato in Europa.
Ci tornò per un funerale che fermò la sua piccola patria, trasmesso in diretta dalla tv croata. E per aspettare, tanto tempo dopo, in questo paesaggio d´ombre e di neve, l´amico perduto. Ma quando? Buenos Aires, Mondiali ‘90. Scorre sul video una scena ormai solita. Hanno vinto ancora, i giganti slavi. Campioni del mondo. E saltano felici e abbracciati, quando irrompe nel crocchio un tifoso, agitando una bandiera croata. Divac la butta via. «Siamo Jugoslavia, non Serbia o Croazia», spiegherà poi inutilmente nelle divampanti polemiche del rientro. «Alcuni capirono, Drazen no. Da allora, con lui qualcosa era cambiato». Senza parole, di lì in poi. Muti e lontani i due che a Rogla, il ritiro-caserma sulle alpi slovene dove nascevano le vittorie, dividevano la camera, «e io tenevo lontane le ragazze, quante ne venivano per Drazen», sorride Vlade a mamma Biserka, lasciandosi cadere nella dolcezza del ricordo. «Dovevo tornare, per lui. Ora va meglio». Il silenzio di un cimitero bianco di neve si macchia dell´abbraccio di due maglie blu.